È facile vedere quel giorno come una linea lungo la quale si è piegato il foglio della Storia. Si tratta di una narrazione posticcia, ma potente
“Nulla sarà più come prima”, “fine del sogno”, “terza guerra mondiale”. Facile, per chi l’11 settembre 2001 aveva vent’anni esatti, leggere i refrain dell’epoca e pensare a quell’attacco come un punto di non ritorno, la linea lungo la quale si è piegato il foglio di tutta una vita, personale e collettiva. Prima c’erano gli anni Novanta, un’età dell’oro liberata dal nemico sovietico, adolescenza collettiva passata coi Chicago Bulls di Michael Jordan e le fellatio alla Casa Bianca, alba del web ben riassunta – come ricorda sull’Atlantic George Packer – dall’onnipresente slogan di Microsoft: “Dove vuoi andare oggi?” Dopo invece ci saranno le guerre scellerate, la crisi finanziaria, il nazionalismo unilaterale, la Storia che si rifà viva per smentire chi la dava per finita.
È una rappresentazione posticcia, ovviamente: potrebbe farcelo presente qualsiasi sopravvissuto alle guerre nei Balcani. Eppure plasmò non solo l’immaginario di una generazione, ma anche molto del dibattito pubblico a venire. Scossi dalle immagini degli aerei che si schiantavano contro le Torri Gemelle – sui cui vetri, da turisti, appoggiavamo la fronte per ammirare Manhattan – in molti cercammo risposte immediate, distinzioni schematiche tra buoni e cattivi; “chiarezza morale”, come si cominciò a dire nei circoli neoconservatori di Washington e da lì, a cascata, in tutte le province dell’impero. Fu giusto e consolante abbracciare un popolo ferito che viene anche anche dai lombi dell’Europa, ricordarci che “siamo tutti americani”, altro mantra dell’epoca.
Dopo le prime settimane, però, dalla ferita iniziarono a suppurare le ideologie. L’amministrazione Bush – blandita da emuli europei come Tony Blair e Silvio Berlusconi, e dai loro media – mise in marcia i soldati lungo i sentieri già tracciati dalla retorica, quella secondo cui “sarà una gigantesca lotta del bene contro il male, ma il bene prevarrà” contro l’“asse del male”. Cattive metafore per una cattiva politica che si impantanerà in Afghanistan e in Iraq, alimentata da ideologi neoconservatori quali Paul Wolfowitz, Elliott Abrams, Norman Podhoretz. Alcuni di loro venivano dalla sinistra e pensavano davvero di poter replicare altrove la battaglia per i diritti civili; fornirono ottime scuse a falchi quali Donald Rumsfeld e Dick Cheney, vere eminenze grigie dell'altrimenti scialbo George W. Bush.
Quella posa supereroica finì per allontanare gli europei, accusati proprio dai neocon di venire “da Venere” invece che “da Marte”. Europei che però ne scimmiotteranno in forma ultranazionalista le parole d’ordine: crociata, islamofascismo, Stati-canaglia. Una postura paradossalmente rafforzata dagli inciampi americani nel mondo, che a tutti fanno temere (o sperare) la fine dell’impero, ovvero quel fuggi fuggi in cui ognuno corre a casa, dà due mandate alla porta e sbircia da dietro le tende i passanti, tutti presunti barbari.
Probabilmente sarebbe finita così anche senza la reazione all’11 settembre: già alla fine degli anni Novanta si cominciavano a contare i delusi della globalizzazione, ignorati da un liberalismo rubizzo e compiaciuto. Il potere globale americano e le sue istituzioni avrebbero raggiunto comunque il punto di risacca. Col senno di poi, insomma, l’affresco di un mondo tutto pace e ricchezza aveva le sue crepe anche prima del 9/11: ‘La rabbia e l’orgoglio’ – titolo di un articolo di Oriana Fallaci che in quegli anni finì nei salotti di tutti – non nascono ‘solo’ da quelle azioni terroristiche. Ma su quelle torri in fiamme e sulle successive ‘guerre di civiltà’ hanno soffiato in molti, finché ai gessati del vecchio conservatorismo – e perfino alla loro versione più guascona, à la Berlusconi – si sono sostituite le felpine rampanti e gli sguardi ferini dei Salvini, delle Le Pen e degli Orbán.
È sul foglietto dell’11 settembre 2001 che ancora oggi annotiamo la fine, se non di calendario storico, di una narrazione tanto dominante quanto rassicurante: quella di un’America vincitrice della Storia, garante d’un mondo unipolare in cui non avevamo che da decidere dove andare, come da ritornello Microsoft. Una sbornia dalla quale alcuni si sono risvegliati incattiviti, altri smarriti. Ma sempre con un saporaccio in bocca.