laR+ L'analisi

Un Maduro alla Casa Bianca

Se Joe Biden vincerà le elezioni, “l’intero Paese andrà all’inferno. E noi non lo permetteremo”.

23 luglio 2020
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Se Joe Biden vincerà le elezioni, “l’intero Paese andrà all’inferno. E noi non lo permetteremo”. Come molte altre affermazioni di Donald Trump è possibile che anche questa non si traduca in pratica, ma non per ciò va derubricata a mera boutade. 

Prima di tutto perché le parole di un presidente degli Stati Uniti non sono mai soltanto parole (e semmai lo fossero confermerebbero l’accusa di inadeguatezza di chi le pronuncia); in secondo luogo perché ciò che sta avvenendo nelle piazze di molte città statunitensi testimonia l’indirizzo sempre più autoritario della sua politica, l’estrema risorsa a cui pare affidarsi per scongiurare una sconfitta il 3 novembre prossimo. Aggiungiamo il passo dell’intervista alla pur servile Fox tv – nel quale, alla domanda se accetterà il risultato in caso di vittoria dello sfidante democratico, Trump ha risposto “Vedremo” – e il quadro si completa.

È su questo sfondo che assume un significato peculiare la presenza a Portland, Oregon, di agenti federali inviati dal Dipartimento della sicurezza nazionale (Dhs). Uomini in divisa mimetica senza insegne, che utilizzano mezzi non riconoscibili, impiegati di norma in operazioni di controllo dei confini o antiterrorismo. Numerosi manifestanti hanno conosciuto a proprie spese i loro metodi; la polizia dell’Oregon (e si sa di che stoffa è pur fatta la polizia da quelle parti) ha voluto distanziarsi dalle forze del Dhs; e infine la Procura statale ha fatto causa allo stesso dipartimento per abuso di potere. 

Per tutta risposta, Trump ha avvertito che invierà gli stessi reparti nelle città in mano ai liberal, New York, Chicago, Philadelphia…

Di nuovo: si tratta di un “serrate i ranghi” rivolto a un elettorato pur fedele ma sconcertato dalla fallimentare gestione della crisi coronavirus; o della spia di un processo ormai avanzato di corruzione del residuo simulacro di democrazia negli Usa? Su questo gli analisti si dividono, ma anche a una lettura sommaria non si possono non riconoscere nella prassi di Trump le analogie con quella di altri capi di Stato che per condotte simili hanno subito sanzioni da parte della Casa Bianca stessa.

È vero che evocare un Maduro può sembrare una provocazione, ma la dinamica innescata da Trump non si distingue molto da quella del capo di Stato venezuelano. E solo la solidità delle loro istituzioni non espone ancora gli Stati Uniti ai rischi di una destabilizzazione come quella sofferta da Caracas. D’altra parte, ancora l’altroieri, Thomas L. Friedman sul New York Times è arrivato a paragonare la politica di Trump a quella di Bashar al Assad, che alle proteste pacifiche rispose con l'impiego dell’esercito, con i risultati che tutti sappiamo. 

A differenza di altri autocrati che nei momenti di difficoltà ricorrono a una guerra all’estero per cercare di recuperare consensi, Trump la dichiara al proprio Paese, come il suo omologo siriano, ha scritto Friedman.

Forse esagerava, ma sarà bene ricordare le sue parole quando ci verrà ancora una volta da ridere del presidente statunitense che, primo nella storia, ha parlato alla nazione dalla Casa Bianca per pubblicizzare un marchio di fagioli in scatola.