L'analisi

Il medio Oriente, la guerra, la follia

L'assassinio da parte degli Usa del generale iraniano Quassem Soleimani è un azzardo di cui nessuno al momento è in grado di prevedere le conseguenze

Milioni in strada per commemorare Soleimani (Keystone)

Forse Trump, ammesso che il nome del condottiero gli suoni familiare, ha per un attimo pensato ad Alessandro Magno quando ha minacciato di distruggere siti culturali iraniani. Pensando magari in un impeto di spavalda sconsideratezza di portare a termine dopo 2’300 anni, a colpi di droni, la distruzione di Persepoli. Mentre dal Medio Oriente salgono urla infarinate di vendetta e odio anti americano, il suo messaggio grezzo da gagliardo cowboy (“colpiremo 52 siti molto importanti per la cultura iraniana”) altro non è che la minaccia reale di commettere crimini di guerra. Che essa sia proferita dal presidente degli Stati Uniti non sembra più sorprendere. La follia, con il suo addentellato di un futuro distopico su scala mondiale, è purtroppo parte integrante della realtà contemporanea da quando è cambiato l’inquilino della Casa Bianca.

L’assassinio del generale Qasem Soleimani, che Trump giustifica come “difesa preventiva”, viola il diritto internazionale umanitario ed è un azzardo di cui nessuno al momento è in grado di prevedere le conseguenze. Sebbene non sia certamente la prima eliminazione eccellente nella storia della superpotenza, essa getta olio sul fuoco in un escalation che incendia tutta la regione.
Soleimani è stato personaggio chiave, nel bene e nel male a seconda dei punti di vista, di tutta la politica iraniana in Medio Oriente: da Hamas a Gaza, agli Huthi nello Yemen, Hezbollah in Libano, la guerra in Siria a fianco di Assad, quella contro l’Isis in un’alleanza de facto con le forze della coalizione guidate dagli Usa. Lo scacchiere è complesso se si pensa che gli sciiti sono saliti al potere in Iraq proprio grazie alla “madre di tutte le guerre”, quella catastrofica condotta da George W. Bush nel 2003. Gli stessi sciiti che oggi si ricompattano chiedendo la partenza dei 5’000 soldati americani rimasti in Iraq. Richiesta che paradossalmente inquieta i sunniti, nelle cui file è cresciuta l’Isis, che in seguito all’invasione Usa hanno perso il controllo del Paese ma che temono ancor più degli yankee gli stessi sciiti. Sarebbe naturalmente riduttivo interpretare in chiave manichea questa sostanziale dichiarazione di guerra americana: Kataeb Hezbollah di Soleimani e l’altra decina di milizie sciite si sono macchiate di attentati e crimini e la presenza iraniana nel Paese arabo è sfociata in proteste di massa represse nel sangue.

Noam Chomsky, intellettuale dissidente americano di fama mondiale, aveva alcuni anni fa affermato che l’America costituisce un pericolo più grande dell’Iran per la pace nel mondo. Oggi due candidati democratici alle presidenziali, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren affermano che Donald Trump è un pericolo per il mondo. L’uscita degli Stati Uniti dagli accordi nucleari (che Teheran stava rispettando) e le sanzioni che soffocano l’Iran sono certamente una – ma non l’unica – ragione della spirale micidiale di questi giorni.
Il presidente americano può vantarsi di un successo tattico (in chiave elettorale), ma si può legittimamente dubitare che la deterrenza anti iraniana sortirà gli effetti sperati. Teheran per interposte milizie è in grado di colpire un po’ ovunque, da Israele al Libano, dagli Emirati Arabi Uniti all’Arabia Saudita.

Confrontando la politica bellicosa di Trump nei confronti dell’Iran (Paese non nucleare) e la sua compiacenza nei confronti del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, ci si può infine chiedere se il presidente Usa non stia indirettamente spingendo Teheran a dotarsi dell’arma atomica, unico deterrente in grado di scongiurare oggi un attacco americano.