Il presidente brasiliano fa del ‘nostrismo’ planetario. Ma la foresta afflitta dagli incendi è un patrimonio dell’intera umanità.
Per correttezza, la tara va pur fatta all’indignazione di quei politici occidentali che su roghi e deforestazione dell’Amazzonia gettano ora ettolitri di allarme ambientalista, affermando di voler salvare la cassaforte mondiale dell’ossigeno (il 20 per cento mondiale) dopo troppo disinteresse. Del resto, nemmeno i leader della sinistra locale Lula da Silva e Dilma Rousseff furono solleciti guardiani della grande e vitale foresta pluviale.
La denuncia è di Ricardo Galvão, l’ex dirigente dell’istituto brasiliano delle ricerche spaziali, silurato per aver rivelato che quest’anno la deforestazione è già aumentata di oltre il cinquanta per cento, attribuendone gran parte della responsabilità a Jair Bolsonaro, presidente dal primo gennaio scorso, nostalgico della dittatura militare e favorevole alla tortura, che in campagna elettorale sottolineò a più riprese il suo negazionismo ambientale (un buon allievo dell’alleato Donald Trump), lasciò intendere che i disboscatori illegali avrebbero avuto vita facile in nome del progresso economico, e precisò: «Nemmeno un centimetro di terra in più ai popoli indigeni».
Purtroppo alle parole sono seguiti i fatti. Fino all’inferno dei 73mila incendi che soltanto lo scorso luglio hanno incenerito oltre 2mila chilometri quadrati di vegetazione, creando future terre destinate a pascoli e insediamenti agricoli controllati in gran parte dal latifondo, dalle multinazionali e dagli esportatori di prodotti destinati alle nostre tavole. Tanto che l’inglese ‘The Economist’ ha scritto che “la foresta amazzonica deve fronteggiare un’ulteriore minaccia: Bolsonaro, dal punto di vista ambientale, il più pericoloso capo di Stato al mondo”. Il nuovo caudillo continua a ripetere: «L’Amazzonia è nostra», e sarebbero dunque i brasiliani (in realtà i peggiori affaristi) a decidere cosa farne.
È come se il tuo vicino inquinasse a piacimento e pesantemente la sua terra, avvelenando anche la tua parte di terreno e le falde acquifere, pretendendo di poterlo fare impunemente e in nome della proprietà privata. Così non può essere, e infatti vi sono trattati fra nazioni che regolano una materia che potrebbe altrimenti diventare un’arma di ricatto e un motivo di conflitti. Le foreste fluviali, brasiliane e no, sono un vitale patrimonio per l’intera umanità. Ci si deve dunque opporre con determinazione a quest’altra forma di ‘nostrismo’ planetario, garantendo certo al Brasile forme di compensazioni economiche.
Non si tratta di neo-colonialismo, come pretende il sovranista di Brasilia. È questione di sopravvivenza collettiva. Ma proprio i Trump e i Bolsonaro cercano di mettere in crisi il multilateralismo indispensabile per questo tipo di politica planetaria.
Del resto viviamo tempi per molti aspetti inverosimili. Come dimostra un presidente americano anti-ambientalista che pretende di acquistare (abitanti inclusi) l’intera Groenlandia, già preoccupata dal ritiro dei suoi ghiacciai. E che poi fa il broncio di fronte a un dignitoso, inevitabile e doveroso rifiuto.