La sentenza francese riapre l'attenzione sulle pratiche finanziarie 'garibaldine' delle banche svizzere che dovrebbero essere ormai confinate alla storia
La vicenda giudiziaria non è ancora chiusa e verosimilmente ci vorranno ancora degli anni per mettere la parola fine a quanto deciso dai giudici parigini di prima istanza nei confronti di Ubs. Si dovrà ancora esprimere l’Appello e infine la Cassazione. Certo, l’entità della sanzione – oltre 3,7 miliardi di euro (quasi 4, 2 miliardi di franchi) – è notevole soprattutto se a questa si aggiunge anche il risarcimento danni, pari a 800 milioni di euro, a favore dello Stato francese che si è costituito parte civile. Insomma, un vero e proprio salasso per il gruppo bancario numero uno in Svizzera in parte mitigato dal fatto che nel 2014 Ubs ha già versato una cauzione miliardaria (decisione contestata invano da Ubs fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo) e che negli anni scorsi sono stati accantonati a bilancio altri 2,5 miliardi per rischi legali. Dal punto di vista contabile e al netto del danno d’immagine il colpo, anche se doloroso, potrà essere assorbito. Non sono a rischio, per intenderci, né i dividendi degli azionisti, né tantomeno i bonus dei manager.
Ma è appunto il danno reputazionale che viene ulteriormente sottolineato da questa sentenza che riporta alla memoria pratiche finanziarie che dovrebbero ormai far parte della storia bancaria svizzera trascorsa. Ricordiamo che la Confederazione ha aderito pienamente al Common reporting standard dell’Ocse che è alla base dello scambio automatico d’informazioni a fini fiscali. La Svizzera, per intenderci, non è più un paradiso fiscale e il segreto bancario per i contribuenti non residenti è solo un ricordo rimpianto probabilmente solo da alcuni operatori finanziari, diciamo così irriducibili. Il modello di business è cambiato.
Quella francese è una vicenda che ricorda da vicino le controversie fiscali con il Dipartimento di giustizia statunitense iniziate prima con Ubs tra il 2007 e il 2008 e poi estesesi a tutta la piazza finanziaria svizzera. Si risolsero come è noto con sanzioni miliardarie – una decina di miliardi di dollari – e costi legali milionari per tutto il sistema finanziario che aderì, a seconda delle differenti responsabilità, al programma di regolarizzazione appositamente pensato per le banche svizzere che avevano dato ‘asilo’ a contribuenti americani infedeli. Un programma successivo a quello destinato ai contribuenti Usa. Washington aveva fatto capire, in modo molto pragmatico, prima al Consiglio federale e poi agli istituti coinvolti che era perfettamente a conoscenza delle pratiche ‘corsare’ delle banche.
Diverso l’approccio dei principali Paesi europei a un fenomeno – quello dell’evasione fiscale via Svizzera – noto da tempo. La Germania, per esempio, ha fatto pressioni sulle banche elvetiche attraverso cd-rom di elenchi di clientela finiti nelle sue mani in modo più o meno misterioso. Non è un mistero però che almeno due istituti (Julius Baer e Ubs) decisero di chiudere la pendenza accettando di versare qualche milione di euro al fisco tedesco. Ed è proprio da uno di questi cd-rom ‘tedeschi’ che 45mila conti bancari di contribuenti francesi aperti presso Ubs finirono alle autorità tributarie parigine. Una domanda di assistenza amministrativa è tuttora pendente davanti all’Amministrazione federale delle contribuzioni. Come le omologhe autorità statunitensi, quelle francesi avevano tutti i mezzi per ricostruire i flussi finanziari verso e dalla Svizzera di loro contribuenti infedeli. Si è però deciso di usare la via giudiziaria, con tutte le garanzie che questa offre, per sanare il passato.
Infine c’è l’Italia che solo negli ultimi mesi e dopo aver messo a frutto il patrimonio informativo dei suoi provvedimenti di emersione dei capitali sta bussando alle porte delle banche estere, soprattutto ticinesi. L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: recuperare risorse sottratte alla sovranità fiscale di un altro Paese. In questo caso però per l’attività commerciale e di consulenza svolta oltre confine. Mentre i banchieri ticinesi lamentano l’inaccessibilità del mercato italiano, le autorità fiscali di Roma contestano proprio il fatto che su quel mercato, teoricamente ‘inaccessibile’, sono stati fatti affari lucrosi tanto che devono essere tassati. Una nemesi inattesa e bizzarra degli storici rapporti tra piazza finanziaria ticinese e clientela italiana.