Dopo lo shock iniziale, parte dal Ticino l’opposizione alla proposta governativa di vietare le adozioni internazionali. La parola a Berna e alle famiglie
La Svizzera vuole chiudere le porte all’adozione internazionale. È la direzione imboccata dal Consiglio federale, che ha incaricato il Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP) di elaborare, entro fine 2026, un progetto di legge per vietare le adozioni internazionali. Perché questa chiusura? Perché secondo il Consiglio federale, nessun diritto in materia di adozioni internazionali, neppure il più severo, può escludere il rischio di abusi. E di abusi in passato ce ne sono stati: traffico di bambini, documenti falsificati e procedure illegali. Tutto ciò non deve ripetersi. Su questo punto siamo tutti d’accordo. Sul come arrivarci ci sono posizioni diverse.
Facciamo un passo indietro. Un gruppo di esperti indipendenti ha verificato su incarico del Governo se una revisione del diritto in materia di adozioni internazionali potesse impedire gli abusi. Hanno proposto due scenari: una riforma sostanziale (con una riduzione dei Paesi di cooperazione, più centralizzazione dei compiti delle autorità) o il divieto delle adozioni internazionali (fatte salve determinate eccezioni). Ha prevalso una scelta di risparmio. La riforma avrebbe richiesto un impegno, in termini di controlli e di nuove regole da approvare, considerato troppo gravoso rispetto al basso numero di adozioni - una trentina l’anno - in Svizzera. Conclusione, se anche norme più rigorose non tutelano dal rischio di abusi, meglio vietare del tutto l’adozione. E i bambini rimangano pure in qualche orfanotrofio!
Non è una decisione granitica. Parallelamente il Parlamento dovrà chinarsi sulla mozione del parlamentare Stefan Muller-Altermatt, sottoscritta da deputati di vari partiti, che va nella direzione opposta: chiede di rafforzare le adozioni internazionali delegando alla Confederazione le competenze cantonali, limitando i Paesi da cui è possibile adottare, istituendo intermediari nazionali accreditati.
Fin qui i fatti su una decisione che ha scioccato molti, lasciando intendere che le adozioni corrette fossero sporadiche. Settimana scorsa si è costituita l’Associazione Gruppo adozione e famiglie Svizzera (GAFS) che si oppone a questo divieto (vedi box).
«Quella del Governo, è una decisione di principio che inizia un processo legislativo e di discussione allargato alla società elvetica», chiarisce Joëlle Schickel responsabile dell’Autorità centrale federale all’Ufficio federale di giustizia. Ci aiuta a capire.
Lo studio degli esperti ha analizzato gli abusi riguardo le adozioni dal 1970 al 2000. Siamo nel 2025, molto è cambiato in termini di controlli e procedure. Ci sono stati ancora abusi negli ultimi 25 anni in Svizzera?
La situazione è migliorata rispetto agli anni ottanta, ma negli ultimi anni abbiamo ancora avuto casi di abuso documentati, legati alla Svizzera e ad altri Paesi europei, ad esempio in relazione ad adozioni provenienti da Etiopia, Uganda, Nepal, Guatemala, Armenia, Vietnam. Alcuni di questi paesi avevano ratificato la Convenzione dell’Aja.
Di quanti casi stiamo parlando?
Non abbiamo statistiche. Ma sappiamo che questi abusi esistono ancora. Negli ultimi 15 anni diversi Paesi come Etiopia, Cambogia, Nepal hanno fermato le adozioni perché ci sono stati scandali.
Per l’Etiopia, l’adozione internazionale danneggiava anche l’immagine del Paese. Sono anche scelte politiche?
Il Belgio sta analizzano vari casi di adozioni dall’Etiopia e sembra che ci siano più casi problematici. Non sappiamo se ciò riguarda anche la Svizzera.
Non sarebbe una garanzia sufficiente fare adozioni con Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione dell’Aja del 1993 sulla cooperazione in materia di adozione internazionale?
Questa è stata la prima raccomandazione del gruppo di esperti, precisando che nessuno studio dimostra la reale efficacia della Convenzione. Ci sono stati problemi anche con Paesi che avevano ratificato la convenzione dell’Aja, che si basa sulla fiducia reciproca. Significa che la Svizzera fa la sua parte riguardo la selezione dei genitori adottivi e lo fa in modo molto più professionale rispetto agli anni 80. E il Paese d’origine fa lo stesso col bambino da adottare.
Qui sta il punto: la verifiche dei Paesi di provenienza sui bambini?
Diversi paesi con cui lavoriamo, presentano rischi, non avendo ad esempio una solida protezione dell’infanzia, dipendendo da aiuti stranieri, con una corruzione elevata. I Paesi più in difficoltà sono quelli con cui è più arduo lavorare perché non hanno istituzioni stabili. In alcuni Paesi solo il 50-70% delle nascite viene registrato. Così è più facile falsificare la situazione del bambino.
Molte famiglie adottive si sentono offese. Il messaggio veicolato è che le adozioni corrette fossero sporadiche…
Non posso parlare a nome del Consiglio federale. Comunque è stato riferito anche di esempi di adozioni regolari e felici. Il messaggio è un altro. Una nuova via per la Svizzera dopo aver analizzato gli scandali delle adozioni (soprattutto dallo Sri Lanka) fino al 2000. Gli esperti hanno concluso che le riforme non annullerebbero il rischio di abusi, non si giustificano per le poche (una trentina l’anno) adozioni, e non sarebbe un buon modo di investire le risorse pubbliche. La priorità è sostenere chi ha subito adozioni illecite e necessita aiuto per ricostruire la sua storia.
Da 300 a 30 adozioni in 15 anni: molti genitori si scoraggiano e abbandonano dopo il primo colloquio con le autorità. Forse è anche questo il motivo?
Sono diverse ragioni. Il progresso della medicina che aiuta le coppie con problemi di fertilità e meno gravidanze indesiderate nei paesi d’origine dove lo status di mamma sola è migliorato. Inoltre, il profilo dei bambini adottabili è cambiato: ora sono soprattutto bimbi con più di 4-5 anni o con problemi di salute. Lo stiamo vedendo con la Thailandia e sono diminuite le adozioni.
Cosa succede ora con le procedure di adozione in corso? I cantoni le possono rallentare o bloccare?
Non c’è un impatto immediato sulle procedure in corso e nemmeno un divieto per nuove domande di adozione. Un campo in cui non ci sono mai garanzie. Già oggi solo il 60% delle adozioni coi Paesi che hanno firmato la Convenzione dell’Aja arriva fino in fondo. Nel nuovo processo legislativo si dovrà decidere anche che cosa fare coi dossier in corso.
«Vietare le adozioni internazionali è una resa, la Svizzera sta dando un pessimo esempio ai giovani, a tutta la società elvetica: quando c’è da impegnarsi, si prende la via più facile chiudendo le porte e guardando dall’altra parte. Riteniamo sia triste per un Paese che ha una lunga tradizione di solidarietà». A parlare sono Danilo e Mara Tormen, di Maggia, spiazzati, come molti svizzeri, dalla decisione del Consiglio federale di voler proibire le adozioni. Loro che ci hanno creduto e hanno affrontato iter complessi per dare una casa, una famiglia a tre ragazzi dell’Etiopia lasciati in orfanotrofi senza nessuna possibilità di crescere in un contesto familiare, né di formazione, sono delusi da un Paese che abbassa così facilmente le braccia di fronte alle difficoltà. «Siamo contrari a questa politica di chiusura e speriamo che questa nuova legge venga revocata. Negherà una famiglia e un’istruzione a tanti bambini in difficoltà, per molti di loro è l’unica soluzione per sopravvivere», precisa Mamma Mara.
Qualche anno fa la loro primogenita, Samira, 22 anni, figlia biologica dei Tormen, ancora prima che i suoi fratelli arrivassero da Addis Abeba, aveva condiviso con orgoglio le loro foto all’asilo, coinvolgendo anche la docente e i genitori dei compagni. Tutta la famiglia, il Paese di Maggia (dove oggi papà Danilo è municipale), hanno accolto calorosamente i fratelli Abenezer (oggi 21 anni) ed Eden (oggi 19 anni). «C’è stata una bella festa di accoglienza all’asilo che frequentava Samira e che avrebbero frequentato anche loro. In paese o tra amici c’è chi ci ringrazia ancora oggi per aver condiviso questo progetto di vira familiare! » Qualche anno dopo, a completare la famiglia, è arrivato Hilawi (16 anni), un altro fratello dall’Etiopia. Anche in quell’occasione abbiamo avuto un’accoglienza calorosa. Tutti i ragazzi sono impegnati negli studi per costruirsi un solido futuro. Samira sta frequentando l’Alta Scuola pedagogica ed è allenatrice di pallavolo. Abenezer è appassionato di calcio, ha militato nel Team Ticino fino ai 18 anni e studia alla Scuola dello sport a Macolin. La sorella Eden ama la moda e sta frequentando la scuola di sartoria a Biasca. Mentre Hilawi, pure lui appassionato di calcio, ha frequentato gli scout e fa l’apprendistato di poli-meccanico all’ex-AGIE con la maturità integrata.
A guardare questa famiglia si direbbe una scommessa vinta. «Pensare che all’inizio eravamo scettici riguardo l’adozione, eravamo orientati all’affidamento, abbiamo fatto anche i corsi. Poi ci siamo informati e abbiamo colto il senso profondo di questa scelta: dare una chance a chi non ce l’ha, permettere di avere una famiglia e un’istruzione a chi in altro modo non potrebbe avere» commentano. «Lo rifarei mille volte, dice Mara soddisfatta, loro ci hanno dato un grande valore aggiunto alle nostre vite». Lei operatrice sociale, lui ingegnere, hanno condiviso un sogno, allargare la loro famiglia a bambini bisognosi. «È un’illusione pensare che in certi Paesi possa funzionare l’adozione nazionale - precisa la madre - purtroppo, per esempio in Etiopia, poche famiglie benestanti adottano bambini, e quando lo fanno i bambini sono destinati alla servitù in casa. E chi resta in orfanotrofio vi rimane fino ai 12-13 anni e poi vengono messi alla porta e spesso finiscono in strada, soli, abbandonati e senza istruzione».
L’iter di adozione è lungo e arduo, si passa attraverso tanti ostacoli amministrativi, controlli di idoneità come genitori in Svizzera, ma anche verifiche in Etiopia. «Prima di dare il consenso all’adozione, le autorità etiopi hanno fatto ricerche per trovare eventuali parenti che potessero occuparsi dei bambini. Per noi è stato rassicurante. Accogliamo in Svizzera bambini che in Etiopia non hanno un futuro», spiegano i genitori.
Ma il legame, le radici restano. I nostri figli hanno raccontato nelle loro classi alle elementari il loro viaggio dall’Etiopia, parlando della cultura del loro paese d’origine con orgoglio. Nelle loro camere hanno vari oggetti e immagini portati a casa dalla loro terra natale. E quest’anno tutta la famiglia farà un viaggio nella terra spirituale dei maratoneti proprio per rinvigorire il legame. L’ultima riflessione è di Danilo, sul senso della famiglia: «C’è un pensiero che condivido: i figli che cresciamo sono del mondo, non di nostra proprietà. Stanno con noi un periodo, il tempo di imparare a volare e poi prendono la loro strada». Un atto di generosa condivisione con chi viene dall’altra parte di un mondo meno fortunato.
Mercoledi scorso, centosessanta persone hanno formalmente costituito l’associazione “Gruppo adozione famiglie Svizzera” (Gafs), composta in gran parte da ticinesi, ma con svariate decine di adesioni da Romandia e Svizzera tedesca. È la risposta di tanti cittadini che si oppongono alla via imboccata dal Consiglio federale di vietare tutte le adozioni internazionali in Svizzera. Scopo principale è quello di farsi ascoltare dal mondo politico federale prima che la misura sia adottata. Nel processo è mancata la voce delle famiglie adottive, i veri esperti in materia. Per chi volesse aderirvi o sostenerla, scrivere all’indirizzo: gafsadozione@gmail.com.
Delusi e disorientati dalla decisione del Governo di andare verso una proibizione delle adozioni. «Così si mette in dubbio il valore dell’adozione, si crea un clima di incertezza, la si delegittima rispetto ad altre scelte, come la decisione di avere un figlio biologico, con o senza tecniche di procreazione assistita. Sono scelte ed esperienze che vanno ugualmente rispettate. Invece, ora si insinua il dubbio che l’adozione sia un atto illegale, egoistico che non tiene conto del bene del bambino, di quel bambino che non si sceglie, ma ti viene destinato», commenta Lorenza Rusconi. Col marito Mattia e i figli biologici Giulio (8 anni) e Irene (5 anni) hanno da qualche mese accolto la piccola Kayala (tre anni e mezzo) dal Burkina Faso. Alle spalle una lunga procedura di adozione durata 4 anni. «Abbiamo sempre desiderato una famiglia numerosa», precisa Mattia Rusconi, docente di fisica al liceo di Lugano 3.
La coppia del Bellinzonese è arrivata all’adozione internazionale dopo un lungo percorso, anche perché per quella nazionale c’erano poche possibilità e non si adattavano alla composizione della loro famiglia. Quando hanno iniziato a interessarsi a questo progetto, il tema degli abusi è stato oggetto di discussione e approfondimento. Un aspetto prioritario per la coppia era quello di scegliere un Paese che aveva sottoscritto la Convenzione dell’Aja. «Ci dava maggiori certezze di poter fare un percorso privo di sorprese e irregolarità. Ci sentivamo rassicurati. Ora, a dire il vero, siamo confusi», spiegano.
È palpabile lo sconcerto di entrambi, soprattutto nel vedere come il governo elvetico, davanti al rischio di abusi, abbia velocemente alzato bandiera bianca, senza neppure tentare di trovare soluzioni alternative. «Mi stupisce che la Svizzera, per 30 adozioni internazionali l’anno, non voglia trovare le risorse per fare controlli più approfonditi. Inoltre, questa decisione è basata sull’analisi di abusi accaduti 30 anni fa. Nel frattempo, molto è cambiato, soprattutto coi Paesi firmatari della Convenzione dell’Aja. Nessuno ci ha ancora spiegato se dopo il 2000 ci sono state adozioni irregolari, con quali Paesi e in quali modalità», precisa il padre.
Loro parlano per esperienza diretta. I controlli in Burkina Faso ci sono stati. Eccome se ci sono stati. «Sia prima sia dopo aver dichiarato la bimba adottabile, i giudici hanno verificato che la storia di nostra figlia Kayala fosse corretta e hanno richiesto a più riprese verifiche e approfondimenti nel Paese», spiega ancora Lorenza Rusconi, che è docente e ricercatrice alla Supsi.
Il desiderio della coppia era quello di offrire una famiglia a un bambino che non ce l’ha, senza la presunzione di salvare nessuno. Un’esperienza di accoglienza molto intensa per tutta la famiglia. Anche Giulio, ma soprattutto la piccola Irene hanno dovuto condividere mamma e papà con una nuova sorellina che veniva da lontano. «Siamo rimasti meravigliati dalla tenerezza, per nulla scontata, con cui i fratelli maggiori l’hanno accolta e di come lei si sia ambientata e affidata sin da subito con incredibile naturalezza». Il congedo per l’adozione (di 16 settimane) per i dipendenti statali ha permesso anche a Mattia Rusconi di esserci per costruire un legame con Kayala che inizia una nuova vita in Svizzera.
Preziose esperienze di solidarietà, di famiglia allargata che un divieto in futuro potrebbe spazzare via. «Se la protezione dell’infanzia fosse davvero così prioritaria, mi chiedo come mai la Svizzera non interviene contro il lavoro minorile (ben più diffuso) magari bloccando l’importazione di merci da determinati Paesi», conclude il docente. Vien da pensare che per gli orfani e per le multinazionali non si usa lo stesso metro di giudizio.
Una proposta shock per chi si occupa d decenni di garantire procedure di adozione rispettose di diritti dei più piccoli come Orietta Lucchini, presidente dell’associazione Mani per l’infanzia, una delle più grandi in Ticino. «Pensavamo a un irrigidimento o una scelta orientata a paesi più affidabili. Ma questa è una decisione drastica, spero non diventi definitiva». Gli abusi si riferiscono a uno studio sulle adozioni tra il 1970 e il 1999. «Ora tutto è molto regolamentato. I paesi che hanno firmato la convenzione dell’Aja sottostanno a una serie di regole: un bambino che non è dichiarato adottabile da un tribunale non può essere proposto in adozione. Avviene solo quando non può essere aiutato altrimenti». Di casi ne ha visti tanti. «In alcune regioni della Costa d’Avorio il 10 figlio porta sfortuna a tutta la famiglia. L’adozione è l’unico modo per salvargli la vita. Sono favorevole alle adozioni nazionali ma non sempre il tessuto sociale le permette».