Importante valutare e capire le parole del generale ed ex ministro della Difesa israeliano Ya’alon e di Amnesty International, ma alle vittime interessa?
A un certo punto te lo chiedi: ma a loro, alle vittime, ai mutilati, ai feriti, agli affamati, agli ammalati di queste guerre atroci – qualunque sia il loro campo, l’appartenenza, l’identità; a loro cosa può interessare di questi distinguo giuridici nel mare di dolore, disumanità, occhi spalancati e vuoti, bocche aperte ma silenti; a loro cosa può interessare se siano vittime di una strategia genocidaria, di un crimine di guerra, di un delitto contro l’umanità, del terrorismo di Stato. Niente, sono soltanto sfortunati bersagli, e basta. Eppure attorno a loro ci si confronta, si dibatte, si litiga. Triste paradosso. Ma necessario, si sostiene. Per stabilire giuridicamente la scala, la gravità, le dimensioni, la premeditazione, l’animo distorto e le motivazioni più profonde dell’attaccante. Non individualmente, ma come organizzazione statale. Nel caso specifico, che si tratti del 7 ottobre di terrore e di morte sistematica nel Sud di Israele (pogrom, per gli ebrei); o di ciò che ne consegue nella Gaza trasformata in enorme cimitero a cielo aperto.
Diventano dunque importanti, quantomeno da valutare, da capire le due ultime notizie in merito. Arrivate nel giro di sole 48 ore. La prima: il generale ed ex ministro israeliano della Difesa, Ya’alon, che rompe il tabù e denuncia la “pulizia etnica” anti-palestinese in corso nell’enclave gazawi da parte dell’esercito di cui fu anche capo di Stato maggiore. Non uno qualsiasi, l’ex ministro. Ma uno di quegli alti ufficiali a cui gli abitanti dello Stato ebraico guardano come a semi-eroi, fondatori e garanti dell’esistenza dello “Stato degli ebrei”. “Pulizia etnica”, per definizione acquisita “una varietà di azioni atte a rimuovere forzatamente da un territorio una popolazione, anche ricorrendo ad atti di violenza o di aggressione o di assassinio”. Può fraintendere e sbagliarsi l’alto graduato israeliano? “È esattamente ciò che stiamo facendo”, insiste. Per gli israeliani uno shock che si spera diventi motivo di riflessione. E di ribellione politica.
Ed ecco, poche ore dopo, il corposo, categorico rapporto dell’organizzazione umanitaria Amnesty International. Che supera la fatale e impegnativa “linea rossa”. La parola è “genocidio”. Citazione senza appello: “Israele ha commesso e continua a commettere genocidio, nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza occupata”. Per definizione di genocidio ricordiamo quella dello storico Marcello Flores, tra i principali esperti di ‘Genocides Studies’: “Per la Convenzione sul Genocidio, promulgata il 9 dicembre 1948, genocidio è la distruzione parziale o completa di un gruppo etnico, religioso o nazionale; però vale solo nel caso in cui c’è l’intenzione di chi commette quella violenza di distruggere il gruppo in quanto tale… in cui i carnefici ritengono che quel gruppo non possa o non debba avere il diritto di vivere”. Per Israele, un’accusa “completamente falsa e inventata”. E si ricomincia con i distinguo, per esempio se ci sia stata o no quella pianificazione per la distruzione delle comunità ebraiche in Europa che i gerarchi di Hitler elaborarono scrupolosamente nella speciale Conferenza del Wansee, ottobre 1942. Come se ottant’anni dopo lo schema possa essere esattamente lo stesso, e non il frutto di decisioni adottate in un diverso contesto armato, dove si può anche improvvisare mentre la terra brucia.
D’accordo, separiamo, distinguiamo, selezioniamo, ragioniamo. Ma intanto, alle vittime che interessa? E, in fondo, quanta della “pulizia etnica” denunciata dall’ex ministro Ya’alon c’è nel “genocidio” di cui parla Amnesty? Quindi, che i distinguo non diventino pretesto e macabro balletto.