I vertici democratici hanno voluto riscaldare un piatto che gli elettori avevano già dimostrato di non gradire. Dimenticandosi di accendere il microonde
E se il profilo trionfante di Donald Trump, che allarga le braccia e sventaglia il risvolto della giacca di sartoria come le ali di un grande uccello predatore, stesse soltanto impallando l’inquadratura? E se quella che sembra l’alba di una nuova inesorabile era fosse soprattutto l’imbrunire di una stagione incerta, mai riuscita a prendere davvero forma? Gli errori dei democratici forse cominciano addirittura all’indomani dello shock del 2016, quando si lasciano convincere che il neopresidente Trump sia una sorta di invincibile pifferaio, capace di una melodia inudibile per loro ma irresistibile per “la gente”, tralasciando il semplice dato numerico che la vituperata Hillary Clinton ha preso quasi 3 milioni di voti più di lui. Ormai persuasi di trovarsi a contrastare una forza di portata storica, nel 2020 reagiscono barando sul calendario, e provando a riportarlo indietro di un decennio con Joe Biden, ultimo reduce della tavola rotonda della Camelot di Obama. A chi solleva qualche perplessità sull’età avanzata del campione scelto, 78 anni già allora, rispondono il silenzio scocciato dei big e qualche invelenito op-ed del New York Times: età fa rima con saggezza, dice la linea, e comunque adesso liberiamoci di Trump, poi tra quattro anni si vedrà. Appunto. Ancora maggiori perplessità desta all’epoca la scelta di una vice come Kamala Harris, coccolata da maggiorenti e finanziatori ma maltrattata dagli elettori delle primarie dem pochi mesi prima. È lei l’asso nella manica dei democratici se Biden non dovesse essere ricandidabile nel 2024, suggerisce qualche illuminato retroscenista dell’epoca. Ma quanto vale un asso già giocato in una mano perdente? Sorge il dubbio che i vertici dem siano ricaduti nel vecchio vizio di fare maieutica più che politica, di voler riscaldare a ogni costo un piatto che gli elettori hanno già dimostrato di non gradire. E come se non bastasse, nessuno si ricorda di accendere il microonde: per una buona metà del mandato la vicepresidente Harris viene abbandonata agli sguardi di Biden, che appena la vede ringhia come Clint Eastwood coi figli cretini in “Gran Torino”. Kamala Harris è quindi se non proprio una barzelletta quantomeno un meme quando a luglio 2024 gli americani accendono la Tv per assistere alla performance di Biden nel primo dibattito presidenziale, e inorridiscono come Basil quando Dorian Gray gli mostra il ritratto che teneva nascosto nell’armadio. Il partito ritira in fretta e furia la patente al presidente per sopraggiunti limiti di età, e lo rimpiazza con una vice che in comune con lui ha soprattutto tassi di popolarità da Grinch sotto Natale.
Adesso Trump, che in quattro anni non si è affatto perso d’animo, fa davvero paura. Harris le prova tutte per scacciarlo, come un pensiero terribile in una notte insonne: prima lo ignora, poi lo deride, infine si solleva la coperta sugli occhi e geme. Proprio come alle primarie del 2020 perde subito il controllo del timone: rolla a sinistra, beccheggia a destra. Pare quasi prendere alla lettera la vecchia battuta dello stratega di Nixon H.R. Haldeman: “Se diciamo qualcosa, c’è il grave rischio che venga travisato”. I metalmeccanici del Michigan, gli ispanici affluenti in Arizona, addirittura gli amish in Pennsylvania. Nella notte oscura del 5 novembre tutti i segmenti demografici si assomigliano, come le vacche di Hegel. E vagamente hegeliano è anche l’amareggiato editoriale del New York Times, che titola “l’America di Trump” e fa del tycoon una sorta di spirito del mondo a cavallo. Quando Trump di Napoleone sembra aver preso tutt’al più una massima spietata: “Non interrompere mai il tuo nemico quando sta facendo un errore”.