Sul quadrante medio-orientale il temuto ‘rischiatutto’ non c’è stato. Forse non ci sarà. O è solo rimandato
Sul quadrante medio-orientale il temuto ‘rischiatutto’ non c’è stato. Forse non ci sarà. O è solo rimandato. Israele restituisce all’Iran – sicuramente provocando danni ben maggiori al nemico – l’attacco subito a inizio mese. Ma concentrandosi su strutture militari, ed evitando gli impianti petroliferi e i siti delle sperimentazioni nucleari, fa capire che ancora non è il tempo di lanciarsi nel regolamento finale.
Venticinque giorni sono stati necessari al governo Netanyahu per definire obiettivi e contorni della sua rappresaglia. È vero che “anche l’attesa fa parte della punizione”, per riprendere beffardamente uno slogan di Teheran. Ma da anni governo, Stato maggiore e intelligence israeliani sanno dove e quali sono i bersagli da colpire su una mappa militare persiana che in fatto di difesa nazionale non eccelle: il suo principale scudo (per volontà del generale Kassem Soleimani, ‘martire’ laico oggi sepolto nel cimitero di Kerman dopo essere stato fulminato da un missile di precisione americano) era infatti quel ‘cerchio di fuoco’ pro-sciita che da Bagdad a Damasco al Libano meridionale, allo Yemen degli Houthi, doveva tenere sotto scacco e sotto pressione lo Stato ebraico. Calcolo errato. La potenza militare israeliana, esplicitata con “metodi barbarici” (definizione di Macron) pure contro le popolazioni civili arabe in risposta all’attacco terroristico antisemita di un anno fa a opera di Hamas, ha dimostrato quanto quei ‘fuochi’ potessero essere vacui. Rimane un’incognita se possano essere rianimati.
Israele e Iran si trovano faccia a faccia. In una competizione tuttavia affollata. Da interessi vari, regionali e no. Così, in realtà, la lunga ‘punizione dell’attesa’ è servita al governo messianico di Gerusalemme per valutare, stavolta con maggior cura, quale fosse la strategia meno autolesionistica. E quali i consigli da ascoltare. Americani, per cominciare, per una volta accolti. Un contrattacco totale e devastante contro Teheran avrebbe aperto una faglia irrimediabile, destabilizzante e senza sbocchi prevedibili per l’intera regione e oltre; non avrebbe affatto aiutato a rinfocolare l’opposizione civile interna al regime teocratico; avrebbe fornito a Pechino e a Mosca le chiavi di manovre anti-occidentali in alleanza col cosiddetto ‘Sud globale’.
Ma c’è di più, e di più importante: avrebbe soprattutto rischiato di ancor più irritare la parte arabo-sunnita, guidata da Ryad – già messa in difficoltà dalle stragi dei civili musulmani da Gaza a Beirut – e sulla quale Usa e Israele invece puntano, con fin troppo ottimismo, per una pace regionale fondata su un’alleanza triangolare: Stato ebraico-Stati sunniti-Stati Uniti. Da tempo l’Arabia Saudita lancia messaggi non equivocabili sul fatto che la strada imboccata da Israele, tutta basata sulla forza delle armi e della spietatezza, mette in difficoltà l’indispensabile lato sunnita di quel triangolo.
Si tratta di un progetto già in sé molto fragile. Aggiungerci ora una devastazione dell’Iran gli sarebbe stato fatale. I messianici al potere in Israele conoscono le linee rosse da non superare nel confronto con i fondamentalisti musulmani. In una partita complicatissima. Mentre nel Nord di Gaza, come segnala l’Onu, “è l’ora più buia”, l’ora dei “crimini più atroci”.