Ucciso Sinwar, Israele esulta, ma la fazione palestinese è come l’Idra di Lerna, nuovo odio e nuovi capi già si stagliano all’orizzonte
Decapitazione ordinata, perseguita e ora eseguita. La testa di Hamas è caduta. Il patibolo era stato attrezzato immediatamente dopo il 7 ottobre. Uccisi prima il capo politico Ismail Haniyeh e altri dirigenti, ora anche Yahya Sinwar, nemico pubblico numero uno di Israele, nello scorso mese di agosto nominato alla successione del leader di Hamas assassinato a Teheran. “Dead man walking”: la formula molto yankee usata dai comandi militari israeliani non poteva lasciar dubbi sulla tenacia di chi voleva la sua pelle. Considerato il principale mandante della strage di israeliani di un anno fa, era cresciuto nel campo profughi di Khan Younis a Gaza con quella rabbia in corpo e sete di vendetta così diffuse tra i giovani a cui è stato sottratto il futuro, chiusi in quella esigua e maledetta lingua di terra.
Come altri dirigenti di Hamas, apparteneva a una famiglia di sfollati da Ashkelon, città che il piano di partizione Onu aveva assegnato agli arabi, ma che la Nakba, la pulizia etnica messa in atto dalle forze ebraiche rimasta ficcata nella memoria dei palestinesi come la più grande delle tragedie, aveva consegnato con la forza al nascente Stato con la Stella di David. I ventidue anni trascorsi nelle carceri israeliane non hanno fatto che rafforzare il suo radicalismo ammantato di fondamentalismo religioso. Cocktail esplosivo molto in voga a Gaza. Aveva trascorso quei due decenni a studiare la cultura e le strategie del nemico, per questo aveva imparato l’ebraico.
Spietato Sinwar, un duro, durissimo, capace di esternare un freddo disprezzo per la vita umana, pronto a tutto, cresciuto nei servizi della polizia politica del movimento, quelli incaricati di stanare infiltrati e collaborazionisti. E di giustiziarli. Così lo ritraggono i diversi profili giornalistici. Eppure stando a un recente scoop del Wall Street Journal, che è riuscito a ottenere parte della sua corrispondenza privata, era rimasto molto colpito dalla brutalità dei miliziani di Hamas nel condurre l’operazione del 7 ottobre. Dalle lettere si apprende pure che non si aspettava una risposta tanto devastante da parte di Israele: il suo obiettivo, sepolto dalle bombe del nemico, era di giungere a un cessate il fuoco permanente ottenendo de facto una vittoria politica, esponendo i moderati dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) all’inutilità della loro moderatezza.
Keystone
Un membro di Hamas
Il Jerusalem Post, giornale filogovernativo, gongola: immagina il terrorista ucciso “somewhere in hell”, in qualche dantesco girone dell’inferno a subire atroci sofferenze. Le stesse che nella realtà e non solo negli auspici del giornale, vivono quotidianamente i civili palestinesi: nel giorno in cui Tel Aviv celebrava la fine di Sinwar, un’ennesima strage di bimbi si consumava in una scuola di Gaza. “Il male ha subito un duro colpo, ma la missione non è conclusa” afferma il premier israeliano, che intasca la sua più grande vittoria. Come la mitologica Idra di Lerna, Hamas per Tel Aviv è un serpente con più teste che ricrescono se vengono tagliate.
L’annientamento del nemico non è dunque ancora giunto al capolinea. Sulla lista dei presunti criminali ricercati che il procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aia vorrebbe poter processare, rimangono ora tre soli nomi. Quello di Mohammed Deif capo delle brigate Al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Gli altri due, accusati di sterminio, sono invece Yoav Gallant ministro della Difesa e Benjamin Netanyahu, primo ministro dello Stato di Israele.