L’ex presidente della Regione Lazio scrive un libro sulla sua esperienza finita tra droghe, trans e ricatti. E si autoassolve con troppa facilità
Gabriel García Márquez sosteneva che abbiamo tutti tre vite: una pubblica, una privata, una segreta. Ma ce n’è una quarta, quella rielaborata, che è poi una versione più o meno romanzata che propiniamo agli altri per apparire non come siamo stati o siamo davvero, ma come vorremmo essere visti, ricordati, fino a convincerci noi stessi.
Più belli, più simpatici, più carismatici, più popolari, più sicuri, più capaci nell’aver capito e affrontato i bivi della vita; e con potenzialità infinite che, se disattese, non è mai del tutto colpa nostra. D’altronde, quanti ne abbiamo visti e quanti ne vedremo “di giocatori tristi che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro”. Sempre colpa di un grave infortunio, di un nefasto evento esterno a mettere un grande, autoindulgente “se” su carriere scintillanti e sulla quinta vita, quella che non abbiamo vissuto, che poteva essere e non è stata. Una folta schiera di ex cavalieri bianchi insozzati dalla vita adulta e dalla malevolenza altrui.
Così si dipinge – nelle interviste che gli stanno permettendo di lanciare il suo libro – Piero Marrazzo, classe ’58, ex presidente della Regione Lazio finito nella polvere nell’ormai lontano 2009 per una storiaccia in cui si mescolarono come non mai pubblico, privato e segreto.
All’epoca Marrazzo passava per un uomo integerrimo: giornalista Rai e poi volto di “Mi manda Raitre” – il programma dalla parte del cittadino che denunciava piccoli e grandi soprusi –, il conduttore seppe usare quel ruolo da detective dei buoni, in giacca e cravatta e a favore di telecamera, per lanciare la propria candidatura alla Regione Lazio.
Keystone
Marrazzo con Silvio Berlusconi
Vinse, governò e poi finì invischiato in un ricatto di quattro carabinieri in borghese che vennero a conoscenza delle sue debolezze e dell’indirizzo in cui dava loro libero sfogo. Entrarono e filmarono Marrazzo, il trans con cui era solito incontrarsi e la cocaina sul tavolo dell’appartamento. Nel processo che seguirà, Marrazzo sarà parte lesa. Ma l’ex giornalista ha dovuto comunque rispondere di ciò che ha fatto all’opinione pubblica, a quella privata (le figlie, la moglie) e anche a quella segreta (sé stesso). Si dimise, spinto da alcuni compagni di partito e dal peso di “dettagli” che dettagli non sono. Il giornalista diventato politico andava infatti agli appuntamenti con l’auto di servizio (lui dice che fu solo in quell’occasione, ma chi – pizzicato in seconda fila – non dice al vigile “giuro che era solo per questa volta”?), razzolando malissimo a dispetto dei suoi bei predicozzi pubblici.
Oggi Marrazzo, con il libro da vendere tra le mani, continua a ripetere ossessivamente di essere una vittima. Lo diceva già nelle interviste di una decina di anni fa in cui ammetteva le debolezze, ma non accettava l’esito della vicenda, in cui si sentì quasi fesso (ma da elogiare) per essersi dimesso, “perché altri non l’hanno fatto”. Un po’ troppo facile. Ancora oggi dice che se avesse pagato e incontrato una donna e non un trans sarebbe andato tutto diversamente. Può essere, perché l’ipocrisia è di tutti. Lui però la incarna benissimo dando alle stampe il suo “ego me absolvo”.
Promuovere un libro autoassolutorio, mostrarsi come povera vittima altrui e di sé stesso, è un’operazione un po’ vigliacca, egoista e – in un mondo pullulante di presunti martiri troppo altolocati per cadere davvero, lui compreso (reintegrato in Rai con ruoli di rilievo) – pure poco originale. E “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, diceva il poeta. Figuriamoci un politico.