Se non c’è dubbio che gli elettori e spesso anche i politici stessi della vicepresidenza Usa se ne freghino, è anche vero che probabilmente fanno male
“Grazie, ma non intendo essere sepolto da vivo”, disse Daniel Webster, rifiutando la candidatura a vicepresidente degli Stati Uniti nel 1839. “Vado ai funerali e ai terremoti” sbottò Nelson D. Rockefeller, frustratissimo, in risposta a chi gli chiedeva di descrivere le sue mansioni come vice di Gerald Ford. “Vi posso garantire che nessuno, ma proprio nessuno, sceglie per quale parte votare sulla base del vicepresidente”, ha chiosato più di recente Joe Biden. Queste sono soltanto tre nel subisso di citazioni e calembour che misurano come il ruolo del vicepresidente, in America, sia tenuto in una considerazione quantomeno dubbia. Ma allo stesso tempo la carica ha un fascino elusivo, anche nella cultura pop, e un’importanza politica crescente. Le due grandi serie Tv degli anni Dieci sulla politica americana, House of Cards e Veep, hanno entrambe per protagonista un vicepresidente immaginario, che a un certo punto finirà per ascendere alla presidenza. Nella realtà, i Democratici stanno per candidare un ex vice alla massima carica per la seconda volta consecutiva, mentre i Repubblicani devono alla vicepresidenza di Reagan l’ultima vera dinastia di partito prima dell’invasione degli ultracorpi trumpiani, quella dei Bush. Se non c’è dubbio insomma che gli elettori e spesso anche i politici stessi della vicepresidenza se ne freghino, è anche vero che probabilmente fanno male. In questo senso potrebbe rivelarsi lungimirante la scelta di Kamala Harris, che al prediletto dei sondaggi e degli strateghi Josh Shapiro – governatore dello Stato decisivo della Pennsylvania, dove gode di un consenso nordcoreano – ha infine preferito Tim Walz, anch’egli governatore ma di un Minnesota che per i Dem appare già in cassaforte.
Una prima osservazione è che, almeno in controluce, Harris e Walz ricordano il fortunato ticket Obama/Biden del 2008. Una outsider in prima fila, afroamericana e in questo caso anche donna, affiancata da un attempato politico del Midwest coi capelli bianchi, per rassicurare l’elettorato più tradizionale. Ma, come nella casa degli specchi al Luna Park, a seconda del punto da cui li guardi, gli ormai quattro protagonisti della corsa assumono forme sublimi o mostruose, rivelando anche qualche somiglianza inattesa. La scelta dei vice, per esempio, ci ricorda che Trump e Harris hanno in comune più di quanto a entrambi piaccia ammettere: sono esponenti dell’élite delle due coste, se non facessero politica si incontrerebbero alle stesse feste a Georgetown e magari piluccando pata negra e funghi Matsutake si troverebbero diabolicamente simpatici, la progressista procuratrice californiana e il reazionario miliardario newyorkese. Per scalare le pianure del Midwest deindustrializzato si affidano a due sherpa come Vance e Walz, che, pur trovandosi agli estremi opposti dello spettro politico, a loro volta condividono un passato militare: 24 anni nella Guardia nazionale per Walz, senza mai combattere, quattro nei Marines per Vance, ma nella veste di corrispondente militare, cioè di giornalista. Una riscoperta dei “veterani” che un sociologo potrebbe divertirsi a leggere tanto come una militarizzazione sublimata di un conflitto politico sempre più aspro quanto come un rinnovato patriottismo trasversale.
Quel che è certo è che su un terreno di scontro così ristretto, in una manciata di Stati demograficamente simili contesi dalle sirene della rabbia trumpiana e l’eco di un’antica coscienza di classe, guardando a Walz e Vance torna in mente un’ultima citazione, quella del primo vicepresidente della storia John Adams: “Sono nulla, ma potrei essere tutto”.