In un’Alta Vallemaggia disastrata dal maltempo, molto ci ha detto di loro, e delle loro comunità, la commozione dei sindaci di Cevio e Lavizzara
Non si sono vergognati di piangere, il sindaco di Lavizzara Gabriele Dazio e la nuova sindaca di Cevio Wanda Dadò. Lo hanno fatto più volte, in questi giorni: di fronte ai microfoni, ripresi dalla Tv, durante il simbolico incontro con la stampa tenutosi mercoledì a Prato Sornico, anfiteatro del disastro, per presentare l’azione di raccolta fondi “Bavona e Lavizzara - Ricostruiamo insieme”, che vuole essere una prima risposta immediata all’emergenza ma soprattutto alla disperazione; sentimento, quest’ultimo, che non può concedere requie se non di fronte a una reazione. Disperata forse anch’essa, a poche ore dall’inferno, ma necessaria per tornare a sentirsi vivi come comunità.
Attraverso le lacrime, Dadò e Dazio hanno dato molto di loro stessi, della loro intimità. È sicuramente un buon segno dal punto di vista individuale, ma anche nell’ottica di una futura catarsi collettiva rispetto all’enorme trauma che ha colpito la comunità di valle. Dare voce, azione ai sentimenti significa essere tanto forti da sostenere la propria fragilità. Che – come ben sa chi ha sofferto – è il solo terreno su cui è possibile far germogliare una forza nuova, più composita, costruita non sul bianco o sul nero, ma sul grande scenario emotivo in cui si incontrano sofferenza, paura, sconfitta, condivisione, sostegno, determinazione e speranza. Quelle lacrime ne contenevano tanta, di speranza. Potevano sembrare buio, ma erano piccole gocce di luce.
E poi c’è un altro aspetto, che non va sottovalutato. Un aspetto che riguarda la politica e il gioco delle parti, forse l’orgoglio, sfumature di localismo, la gestione della cosa pubblica osservata con occhi simili ma da differenti punti di vista. Non sono sempre andati d’accordo, Cevio e Lavizzara. Non per le scuole, non per la casa anziani, non per altre questioni, per il ruolo del capoluogo dell’Alta Valle rispetto a quello delle valli periferiche. Lavizzara che negli ultimi mesi, in più occasioni, ha oltretutto voluto mettere i puntini sulle “i” riguardo al concetto di “ricchezza” perorato dal Cantone tramite grandi progetti come l’innalzamento della diga del Sambuco e la teleferica che potrebbe un giorno collegare Fusio e Ambrì. Progetti che tra l’altro, nel dopo-alluvione, ci si guarda bene anche solo dall’evocare. Ricchezza sì – era il tema – ma a che prezzo? E soprattutto: a noi quanta ne rimarrà?
Sembravano schermaglie, ma con il senno di poi appaiono oggi come le giuste rivendicazioni di una periferia che si conosce e si riconosce e ha tutte le ragioni di guardare alle grandi promesse con la lente della critica.
Infine, ancora la commozione. Quella dei due sindaci, esattamente come tutti i distinguo appena elencati, portava l’enorme peso sostenuto oggi dalle loro genti. Darle sfogo, apertamente, significa esporre, per il proprio tramite, l’anima condivisa di chi ha scelto di vivere in periferia. La casa primaria in Bavona, un Centro sportivo che è il motore economico e il vanto di un’intera regione, l’azienda agricola spazzata via dalla piena del fiume, l’ostinazione di un anziano che di fronte alla devastazione tiene alta la testa e dice “io rimango”.
Tutto questo, ci hanno detto quelle lacrime. E allora che scorrano, perché sono la sola via d’uscita possibile.