La questione oltrepassa il settore mediatico e diventa un problema di società: abbiamo permesso a certi personaggi di credere che questa sia la normalità
No, il problema in sé non è Regazzi, lo sbrocco, l’arroganza, l’ipocrisia. Non soltanto, almeno. A pensarci bene il problema siamo noi, soprattutto noi. Un noi di categoria: i media (non tutti, non sempre) incastrati in una sorta di gioco di dare per avere, una trappola in parte autoinflitta. Forse potremmo anche chiamarla dumping mediatico, per fare un parallelismo con un fenomeno assai noto: i nostri politici sono talmente abituati a trovare giornalisti pronti a pubblicare interviste fatte su misura, a essere ospiti di dibattiti senza contraddittorio, che poi quando qualcuno osa porre una domanda scomoda o sollevare un’obiezione l’uomo politico (non tutti, non sempre) si irrita, evita il confronto, accusa l’interlocutore di non adempiere ai suoi doveri. Certo, c’è una grande differenza tra il lavoratore frontaliere e il giornalista: il frontaliere che accetta un lavoro sottopagato lo fa per necessità; non possiamo quindi imputargli alcunché (sì invece a chi sfrutta il suo bisogno a proprio vantaggio). Il discorso cambia, evidentemente, quando pensiamo al ruolo che ha – che dovrebbe avere – la stampa: quarto potere dello Stato, cane da guardia della democrazia. Il meccanismo è talmente perverso che poi chi cerca di svolgere il proprio lavoro secondo coscienza diventa l’esagitato, il polemico, colui o colei in fuorigioco. Invece no: dall’uomo politico possiamo e dobbiamo pretendere delle risposte, dei chiarimenti, anche il rispetto. Tutto questo il politico non lo deve alla stampa, ma alla cittadinanza: è risaputo che i media sono – dovrebbero essere – un organo di controllo che veglia sul buon funzionamento delle istituzioni.
Chiaro che se uno dei due rappresentanti ticinesi al Consiglio degli Stati si permette, in diretta tv, di insaccare un giornalista perché ha osato fare una seconda domanda – non particolarmente arguta –, allora bisogna davvero interrogarsi su come stiamo interpretando il nostro mestiere, su quale fine abbia fatto quella responsabilità conferitaci dall’opinione pubblica.
A dire il vero la questione oltrepassa il settore mediatico e diventa un problema di società: abbiamo permesso a certi personaggi di credere che questa sia la normalità, li abbiamo legittimati con il nostro voto, con una fiducia pressoché incondizionata verso l’imprenditore di successo “che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno”. Una specie di venerazione del padre/padrone che ha dato vita a una forma perversa di sottomissione (di feudale e maschilista memoria). Fabio Regazzi e la sua piazzata di settimana scorsa possono dunque essere visti come uno stereotipo, una forma ben definita di esercizio del potere: economico, politico, mediatico, sociale. Non bisogna andare a scomodare Althusser o Foucault per dimostrare la correlazione fra tutte queste dimensioni.
Alla fine però ognuno vede quel che vuole o ciò che gli conviene: c’è quello che urla ogni domenica mattina (e che – in teoria – lavora come direttore di un settimanale) che ha celebrato il fatto che alla trasmissione Rsi il moderatore sia stato “asfaltato” dal senatore; c’è chi a Comano ha invece apprezzato come il collega abbia saputo “farsi scivolare con misurata ironia” l’ostilità del consigliere agli Stati. Ma c’è anche chi – noi siamo tra questi – ha intravisto in questa ignobile scena un pregio: quello di risvegliare un dibattito fondamentale, al quale nessuno che abbia a cuore la salute della nostra democrazia (diretta) dovrebbe sottrarsi.