A disturbare delle mobilitazioni negli atenei è che amplificano le voci di un'umanità che soffre, a cui per quieto vivere si vorrebbe mettere la sordina
Ci sono momenti nel corso della storia in cui il miglior modo di usare un’università è occuparla. Così la pensano le diverse centinaia di studenti che anche in Svizzera, sull’onda delle mobilitazioni in atto in altri atenei del mondo, sono passati negli scorsi giorni dalla teoria alla pratica mettendo in scena il loro maggio di protesta contro l’assedio nella Striscia di Gaza.
Principale tra le richieste formulate dai giovani è stata quella di ottenere da parte dei rettorati l’interruzione di ogni collaborazione accademica con istituzioni legate al governo israeliano fino a quando non si arresterà definitivamente la linea d’ombra che da sette mesi a questa parte, in risposta all’attacco di Hamas dell’ottobre scorso, giorno dopo giorno inghiotte le esistenze della popolazione palestinese in una prigione a cielo aperto. La libertà accademica – ha dichiarato in varie interviste la presidente di swissuniversities – riguarda la possibilità di condurre ricerca e insegnamento senza interferenze politiche. Non soddisfatti da tale risposta (“è un’ipocrisia – ha detto lunedì al nostro giornale una studentessa di Losanna –, nel conflitto in Ucraina hanno preso decisioni immediate; anche invitare Emmanuel Macron all’università è stato un posizionamento politico”), là dove l’intimazione di lasciare gli stabili non si è accompagnata alla minaccia o addirittura alla messa in pratica di far intervenire la polizia, gli studenti hanno deciso di portare avanti l’occupazione. Sono rimasti per continuare le trattative con i vertici degli atenei più aperti al dialogo e per mantenere alta l’attenzione mediatica su un conflitto a cui in molti preferirebbero mettere la sordina.
Si tratta di un gesto che arriva a guerra inoltrata e che per questo si può leggere come il segno di un’esasperazione per la lontananza che separa chi da un lato prova il sentimento intollerabile di assistere alla quotidiana sofferenza di quei ‘dannati della terra’ la cui conta di affamati, mutilati, orfani e genitori senza più figli aumenta incessantemente, e chi dall’altro – la maggioranza delle istituzioni e della politica – con prese di posizione assenti o atone a tale sofferenza si mostra indifferente. Tra i primi c’è chi ha così sentito l’esigenza di passare a una forma di mobilitazione che marca uno scarto dalle consuete pratiche di piazza le quali a causa di una certa assuefazione si trovano ormai relegate ai margini dei campi visivi dei più, con discorsi diventati parte dello sfondo sonoro delle città. Discorsi che invece tra le mura di un’università presidiata hanno ripreso centralità e generato una nuova cassa di risonanza permettendo di dare voce alle vittime di un conflitto che – a differenza di chi siede negli scranni che contano – rientrano nella categoria di quelle minoranze in termini di potere che per provenienza, genere, età o appartenenza fanno fatica a trovare uno spazio di espressione.
Sono soprattutto i semi piantati da persone come questi studenti, implicate con atti di presenza e messa in gioco anche dei propri corpi – in occupazioni di scuole e fabbriche, in scioperi e manifestazioni – che in passato, in rottura con l’ordine costituito, hanno permesso di aprire solchi da cui sono fioriti i diritti civili e sociali di cui oggi godiamo nei nostri orticelli di benessere, non gli steccati di chi questi orticelli vorrebbe recintarli per proteggersi dagli orrori che funestano il mondo fuori. A ben guardare, l’occupazione che forse più infastidisce non è tanto quella di qualche atrio universitario, ma quella di un angolino delle nostre coscienze che ci ricorda che siamo responsabili anche di ciò che decidiamo di ignorare.