Per arrivare a una vera svolta tra Israele e Palestina servono buonsenso, realismo e anche – se non soprattutto – rinunce reciproche
La soluzione esiste, ma non è quella a cui pensa Netanyahu. Perché non può essere militare, ma politica. Dal 7 ottobre la guerra dei 100 (e oltre) anni ha conosciuto un’escalation verso quell’inferno che più che capolinea del conflitto, ne preannuncia il prolungamento su vasta scala.
Da tempo in quel fazzoletto di terra mediorientale, si confrontano due estremismi speculari, uno forte di mezzi militari immensamente più importanti, sempre più arrogante e prevaricatore, l’altro il cui fanatismo religioso e la strategia terroristica manipolano cinicamente una popolazione disperata a cui decenni di conflitto e di isolamento hanno sottratto il futuro. Ad Hamas che mirava alla cancellazione di Israele, un ministro dello Stato ebraico ha risposto con l’eloquenza malata di odio, proponendo di radere al suolo Gaza e di ucciderne tutti i suoi abitanti. La guerra precipita i contendenti in un’unica dimensione: all’astio omicida si risponde per le rime. Crescono rancore, violenza e disprezzo; la grande assente è palesemente la politica.
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Bandiere israeliane durante la liberazione di alcuni ostaggi
Il paradosso è che in questa guerra in cui si scontrano due legittime ragioni (Stato di Israele e Stato di Palestina), le vie d’uscita sono già state scritte da anni. Lo ricorda un collettivo di ex diplomatici francesi che si esprime sul quotidiano Le Monde: denuncia la risposta “punitiva, brutale e inutile di Israele” nella quale sono state uccise 13mila persone, distrutte la metà delle case di Gaza e chiede che le istanze internazionali spingano senza più esitare per la soluzione dei due Stati. L’altra ipotesi, quella di un unico Stato appare oggi irrealizzabile: l’evoluzione demografica giocherebbe contro gli ebrei. “La soluzione c’è” sottolinea pure un altro collettivo di intellettuali e politici (tra cui l’ex ministro Jack Lang e l’ex eurodeputato Daniel Cohn Bendit): smantellamento delle colonie, Gerusalemme sotto doppia autorità, scambio eventuale di territori.
La “roadmap” delineata ad Al Jazeera dal professor Tamer Qarmat è dettagliata ed è un condensato di buonsenso e di realismo: ricostruzione immediata di Gaza (anche con un fondo di compensazione israeliano), riconoscimento da parte di tutte le formazioni palestinesi dello Stato ebraico, una sola Autorità Palestinese responsabile di Cisgiordania e Gaza, due Stati nei confini del 1967, sicurezza delle frontiere garantita internazionalmente e con forte presenza della Turchia (membro della Nato e al tempo stesso accettata dal mondo islamico).
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Una bandiera palestinese in cisgiordania
Rinunce reciproche sono ovviamente la precondizione di una vera svolta. Gli ostacoli sono immensi, certo. Non da ultimo quello ideologico-religioso, forse il più tenace poiché identitario, povero di verità storiche, infarcito di leggende (dalla mai esistita grande Israele di Davide e Salomone, a Isra’ wal Miraj, la fantasiosa ascensione al cielo in groppa a una creatura alata, proprio a Gerusalemme (!) del profeta Maometto) con le quali si giustificano soprusi, razzismo, violazioni del diritto e dell’integrità delle persone. Nell’interesse di tutti, le potenze militari ed economiche di entrambi i fronti (Usa, Cina, Russia, Europa, Lega araba) e le Nazioni Unite sono chiamate oggi come non mai a esercitare una forte pressione, anche approntando mezzi coercitivi per costringere israeliani e palestinesi a porre fine al più lungo conflitto dell’epoca contemporanea.