Gli eventi a Gaza vanno letti nel degrado progressivo degli ultimi decenni e nella micidiale impasse che alimenta frustrazione, violenza e terrorismo
La distanza era netta, ora rischia di diventare incolmabile. La spaventosa carneficina del 7 ottobre e la spietata risposta di Israele hanno isolato ulteriormente l’Occidente sia dal mondo arabo-islamico sia da quei Paesi che da anni stigmatizzano la politica dei due pesi due misure. L’indignazione a geometria variabile non passa inosservata: l’inequivocabile denuncia dei massacri compiuti da Hamas contrasta con le tergiversazioni e la prudenza con cui le capitali occidentali chiedono a Benjamin Netanyahu di cessare la mattanza a Gaza. Una sola voce, seppur un po’ tardiva, ha finora rotto gli argini dell’eccessiva moderatezza: quella di Emmanuel Macron. “Nulla giustifica, nulla legittima il bombardamento di civili”: parole che il presidente francese ha pronunciato in un’intervista alla Bbc, nella consapevolezza dello scarto che vi è tra una classe politica sostanzialmente acritica da una parte, la piazza e i governi mediorientali dall’altra.
Ingabbiato nel “passato che non passa” Olaf Scholz ribadisce che “la Germania ha un solo posto, accanto a Israele”. Joe Biden accenna a qualche timido appello alla ragionevolezza di Tel Aviv: incombono le presidenziali, il peso della lobby filoisraeliana dell’Aipac è decisivo, ma nei campus e tra le minoranze (tradizionalmente democratiche) il dissenso con la Casa Bianca è palpabile. Barack Obama incrina il fronte dell’acritico sostegno alla politica dell’alleato: “Se si vuole risolvere il problema, bisogna tener conto della realtà nella sua integralità, in una certa misura siamo tutti complici”. Saggezza e buon senso, quelli dell’ex presidente (avversato a più riprese, come l’altro ex, Jimmy Carter, dal premier israeliano e le sue cerchie di estrema destra) secondo il quale la pace non può prescindere dal riconoscimento dei diritti reciproci. La massiccia colonizzazione illegale che ha creato un regime di apartheid in Cisgiordania rende vano qualsiasi approccio a un’intesa. Negli ultimi giorni, rivela un’inchiesta del Washington Post, i “settlers” sionisti messianici della “West Bank” hanno ucciso una decina di palestinesi, cacciato un migliaio di abitanti, abbattuto mezzo migliaio di ulivi e cementificato ettari di terra coltivata palestinese.
Gli eventi a Gaza vanno letti nel degrado progressivo degli ultimi decenni e nella micidiale impasse che alimenta frustrazione, violenza e terrorismo. E in Europa pure un insidioso antisemitismo, ormai in parte transitato da destra a sinistra. Bene ha fatto il governo francese a indire una marcia di solidarietà con gli ebrei, in nome della coesione nazionale. Ma il veleno antisemita non può essere utilizzato – è l’esercizio prediletto di Netanyahu – come paravento dietro al quale si consumano soprusi, massacri e (forse) crimini di guerra contro la popolazione inerme. All’odio anti-giudaico, la risposta non può essere quello anti-palestinese. Il premier ha estratto dal cilindro il suo tradizionale retorico ritornello, tacciando di “puro antisemitismo” l’annuncio di un’inchiesta della Corte penale internazionale per presunti crimini di guerra a Gaza.
C’è da sperare che la celerità con la quale si è giustamente proceduto per incriminare Putin sia ora applicata per indagare sull’eventuale violazione, israeliana e palestinese, delle Convenzioni di Ginevra.
Ne va della credibilità dell’Occidente e dei suoi conclamati valori.