Risalgono a sessant’anni fa, ma le parole di un testo di Max Frisch sul diffuso clima anti-immigrati del suo tempo sono ancora di particolare attualità
“Sono troppi, ecco il motivo. Ma non nei cantieri, non nelle fabbriche, non nelle stalle e nemmeno nelle cucine. No, sono troppi nelle ore libere, soprattutto di domenica all’improvviso sono troppi. Balzano all’occhio, sono diversi”. Era il 1965 quando Max Frisch scriveva queste parole in un testo dal celebre incipit: “Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini”. L’autore zurighese si riferiva al clima di avversione per gli italiani venuti in Svizzera a lavorare e all’allarmismo per il cosiddetto “inforestierimento” che diede origine all’iniziativa Schwarzenbach.
A distanza di quasi 60 anni adesso è l’Udc, con la complicità soprattutto domenicale (tout se tient) degli alleati leghisti, ad agitare con particolare veemenza lo spauracchio dell’“immigrazione incontrollata” che ha costituito il perno della campagna elettorale per le Federali e alla quale si addebitano – tra le altre cose – la cementificazione del paesaggio, la penuria di alloggi, l’aumento dei prezzi dell’elettricità, l’esplosione dei costi sociali, l’importazione di violenza e criminalità. Eppure la Svizzera, come il resto d’Europa, vive del contributo delle persone immigrate. Basti pensare che nel mercato del lavoro ticinese gli stranieri rappresentano il 53,4% degli occupati (dati Ustat 2022) e che senza di loro interi settori quali ristorazione, albergheria, agricoltura, industria, commercio, lavoro domestico e di cura – contraddistinti da turni faticosi e salari generalmente bassi – sarebbero al collasso. “Non divorano il benessere. Anzi, al contrario, sono indispensabili al benessere stesso”, scriveva già a suo tempo Frisch. Ciononostante continuano a susseguirsi offensive volte a criminalizzare il fatto stesso di migrare, che sia in cerca di un impiego o di protezione umanitaria, stigmatizzando in questo secondo caso la dipendenza delle persone rifugiate dagli aiuti sociali quando proprio fattori istituzionali (leggasi: limitazioni legate ai permessi) e la medesima ostilità politica rendono loro estremamente difficile affrancarsi dall’assistenza (vedi pagine 2 e 3).
Discorsi elettoralmente paganti: come mai? Sosteneva il sociologo della modernità liquida Zygmunt Bauman che il principio costante di tutte le strategie utilizzate nella storia per rendere la paura sopportabile consiste anzitutto nello spostare l’attenzione dalle cose su cui non si può far nulla a quelle su cui si può intervenire. Al giorno d’oggi, rileva nella nostra intervista il professor Maurizio Ambrosini rifacendosi a Bauman, c’è un diffuso senso di insicurezza derivante dalla globalizzazione che si può articolare in tre accezioni: l’“insecurity”, ovvero l’insicurezza per il futuro delle condizioni materiali; l’“uncertainty”, l’incertezza morale e identitaria, cresciuta con lo sfaldarsi delle ideologie del Novecento; e la “safety”, l’incolumità fisica e patrimoniale, che è l’unica delle tre su cui possiamo agire e verso la quale pertanto vengono fatti confluire tutti i timori sperimentati negli altri due ambiti. E chi meglio di quei “diversi che balzano all’occhio” è facile figurarsi come simbolo di un mondo minaccioso? Non è però chiudendo i confini ai migranti, privandoli di diritti e dignità, che quieteremo il nostro senso di insicurezza esistenziale generato da ben altre ragioni. Intanto, mentre aspettiamo di imparare qualcosa dai corsi e ricorsi della storia, ciò che resta degli esseri umani di cui vorremmo solo le braccia continua a cercare di capire “di che genere sia il freddo che li atterrisce”. Allora come oggi, concorderebbe Frisch, è quello dell’inverno delle coscienze.