La politica preferisce massimizzare i vantaggi del breve periodo a discapito del lungo termine: il populismo che eccita paure e rancori va alla grande
Riprendo la rubrichetta dopo la pausa estiva: ho riunito in un secondo volume i contributi degli ultimi anni e l’amico giornalista Lorenzo Erroi ha detto la sua con arguti commenti (La trave nell’occhio, Ed. laRegione, 2023).
Constato una ridondanza dei temi: i problemi di ieri si ripropongono oggi, ma peggiorati. I migranti muoiono a migliaia e la politica senza umanità auspica muri, respingimenti, espulsioni e pure la reclusione; la diversità in certi ambienti è un disvalore da combattere e – ripete la destra arrembante – incombe il pericolo della sostituzione etnica; le diseguaglianze fra ricchi e poveri sono diventate abissali ma ci si ostina a ritenere che i ricchi sempre più ricchi siano la manna dal cielo per i poveri che sono invitati a pazientare; perfino la crisi climatica è considerata un’invenzione, di sinistra ovviamente, di un ecoterrorismo strumentale: il politico imbecille ci spiega che non c’è da preoccuparsi perché il pianeta ha sempre fatto un po’ su e un po’ giù; intanto le guerre si sommano alle guerre e la Terza guerra mondiale è in atto. Il mondo sta rotolando verso il basso: ci vorrebbe tanta buona politica e tanti buoni politici per riparare i danni, ma la materia scarseggia e la regressione morale e civile è in corso. L’universalità dei diritti umani oggi si arresta dove l’Occidente alza i muri e chi sta fuori è in un altro mondo, diverso, con meno dignità.
La mediocrità di certa politica, per non dire l’indecenza, è indotta paradossalmente dal funzionamento delle nostre democrazie liberali, poco adatte a promuovere i bisogni delle generazioni future. Perché? Perché i nostri governanti sono eletti dagli elettori del presente che ragionano sui bisogni del presente e sono scarsamente disponibili a eccessivi sacrifici in funzione delle generazioni future. I giovani protestano ad alta voce, ma contano poco: non sono ancora elettori. E così la politica preferisce massimizzare i vantaggi del breve periodo a discapito del progresso a lungo termine. Lo sanno bene gli aspiranti governanti: per essere eletti nelle democrazie elettorali come le nostre non bisogna guardare troppo avanti ed è opportuno adattarsi ai cagionevoli umori degli elettori del presente. E il populismo che eccita paure, timori e rancori va alla grande.
Oggi si parla di postdemocrazia per indicare che nelle democrazie attuali il ruolo dei cittadini è di votare e basta; poi sono le élite economiche e finanziarie a dettare l’agenda della politica. Spesse volte la meta ultima dell’agire politico è il profitto di una parte e non l’interesse collettivo.
Norberto Bobbio nel 1978 spiegava che ci sono governi che governano “di più” nell’interesse comune, per il bonum commune, e altri che usano il potere per trarre profitto particolare, per il bonum proprium. Mi pare che su molte, troppe questioni sia la seconda opzione a prevalere. Il lobbismo di 90 parlamentari che siedono a Berna, da che parte sta? Quando discutono di casse malati, tanto per fare un esempio di stretta attualità, prevale il bonum commune o il bonum proprium?
A questo punto, visto che lo Stato democratico liberale, proprio perché ancorato agli umori del presente, è incapace di elaborare un progetto di futuro alternativo e si limita a proiettare il presente nel futuro, come venirne fuori? Come dare peso politico ai giovani che protestano sulle strade e nelle piazze perché il mondo sta cadendo a pezzi, e noi lo sappiamo benissimo che a pagare le conseguenze della nostra indifferenza saranno loro?
Non ho dubbi: l’unica strada è quella di riconsiderare il sistema democratico liberale come un cantiere aperto che deve rinnovarsi, trasformarsi continuamente anche a prezzo di bruschi strattoni e di vere e proprie ribellioni. Ce lo dice Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori e presidente degli Stati Uniti agli inizi dell’800: è opportuna una rivoluzione ogni 20 anni per adattare la Repubblica ai nuovi bisogni. È in buona compagnia Jefferson. Confidano nella vigorosa spinta al cambiamento da parte dei giovani dell’ultima generazione personaggi come Hessel, Chomsky, Bauman e parecchi altri: si tratta, secondo loro, di superare l’impotenza di un mondo guidato da ciechi. Il citatissimo Colin Crouch, politologo assai autorevole e inventore del concetto di postdemocrazia, non ha dubbi: la politica attuale non ha sbocchi e non ne usciremo “senza un aumento massiccio di azioni veramente dirompenti, come quelle portate avanti (dai giovani dimostranti)”.
In questi giorni di campagna elettorale per le Federali li vedo i nostri candidati al governo del Paese: trasmettono un senso di generica vaghezza, di ineluttabile impotenza, di assenza e di estraniazione dal mondo dei problemi reali. Al di là dei proclami di circostanza, c’è una evidente incapacità di combattere per delle concrete alternative e la brusca discontinuità proposta dai giovani attivisti fa loro paura.