In trent'anni si è passati dalla stretta di mano Rabin-Arafat al caos, un fuoco su cui tutti hanno soffiato e che ora lascia pochi margini di manovra
“L’unica cosa augurabile è che Gaza sprofondi in mare”. Lo affermò Yitzhak Rabin. Che però decise poi di stringere la mano del nemico Yasser Arafat. Storica istantanea (esattamente trent’anni fa, settembre 1993) dell’intesa di Oslo sulla prospettiva lontana di due Stati infine pacificati.
Immagine illusoria, quasi subito sbiadita, definitivamente stracciata dall’assassinio dello stesso premier israeliano per mano di un giovane estremista ebreo. In mezzo, abbiamo avuto tre decenni di paralisi diplomatica, il conseguente precipizio verso il baratro fatto di attentati, scontri armati, crescita delle componenti radical-religiose in entrambi i campi, più colonizzazione nei Territori palestinesi occupati, più forza dei padroni islamisti di Gaza nei confronti di una leadership palestinese incapace e corrotta, conflitto immutabile e derubricato sull’agenda internazionale, gli occidentali convinti che sarebbe stato il tempo e la legge del più forte (lo Stato ebraico) a risolvere prima o poi una secolare tragedia.
Il vuoto politico si paga a caro prezzo. E piomba così il disastro di venerdì notte. Con Israele, prima potenza militare del Medio Oriente, confrontato a un’angoscia e un senso di fragilità mai conosciuti. Con il suo cielo coperto dalle strisce di migliaia di razzi (manovra probabilmente anche diversiva), ma soprattutto con il nemico in casa. Centinaia di miliziani armati di Hamas, motivati e organizzati, che sbaragliano i reparti di Tsahal dal 2004 incaricati di sigillare militarmente tutta la Striscia di Gaza, sovraffollata lingua di terra, ‘prigione a cielo aperto’ la definì per primo “Le Figaro”: i ‘guerrieri di Allah’ entrano in una ventina di centri abitati israeliani, abbattono le porte di molte abitazioni, uccidono civili e militari, catturano e deportano decine di persone e soldati.
Keystone
Esultano i filopalestinesi
Qualcosa che finora sembrava inimmaginabile. Mentre Israele bombarda e muove i suoi carri armati per l’annunciata terribile vendetta (“cambieremo la situazione a Gaza per i prossimi 50 anni, quel che c’è non esisterà più”, promette il suo ministro della Difesa), e mentre sul fronte nord (dallo sfasciato Libano all’instabile Siria) la minaccia che si muovano anche i ‘fratelli di fede’ Hezbollah mette in fuga migliaia di israeliani. Fiamme di guerra vera, e non solo terrorismo. Incendio che potrebbe estendersi a tutta la regione.
“Abbiamo potuto agire grazie al sostegno dell’Iran”, fanno sapere non a caso i dirigenti di Hamas. Innescando un’altra potenziale miccia. Sanno che Israele è stato fin qui dissuaso dagli Stati Uniti dall’attaccare Teheran, per eliminarne la presunta (finora) volontà di diventare potenza atomica; in ogni caso, per depotenziarne la forza militare, mettere all’angolo il regno degli ayatollah, ispiratore e regista, finanziatore e manovratore di quella ‘mezza luna’ a guida sciita che cerca di costruire lungo la dorsale Teheran-Bagdad-Damasco-Gaza. Bersaglio di Hamas non è soltanto interno alla Palestina storica, con la sanguinosa ma riuscita sfida alla supremazia militare e spesso dell’impunità politica israeliane.
Il bersaglio grosso sta però fuori dai confini. Si chiama “Accordi di Abramo”, ufficiale riconoscimento reciproco fra Gerusalemme e alcuni principati arabi del petrolio, oltre al Marocco. Soprattutto di chiama Arabia Saudita, custode della Mecca, sunnita e guida della “umma” musulmana sunnita, che si è messa a dialogare con Israele. Forse, su incoraggiamento americano, addirittura pronta allo scambio di ambasciatori. E forse all’origine di una ancora vaga idea di creare un blocco islamico che tratti una pace complessiva in Medio Oriente. Fumo negli occhi per l’islamismo radicale di Hamas e del suo manovratore iraniano. Anche se Riad ha recentemente riaperto il dialogo anche con Teheran. Un tessuto diplomatico che però ora rischia di lacerarsi. “Abbiamo potuto agire grazie al sostegno dell’Iran”, ci tiene a far sapere la leadership jihadista. Ulteriore miccia accesa e spinta verso il barile già stracolmo di esplosivo. E come reagisce il Regno saudita? Affermando – tenendo conto dello stato d’animo di molti musulmani – che “tutto è avvenuto per colpa di Israele”. È quello che volevano sentirsi dire gli ayatollah e Hamas. La loro prima vittoria, raggiungono infatti il loro principale obiettivo: colpire Israele anche sul piano politico, e azzerare il processo di avvicinamento al nemico.
Keystone
Una moschea distrutta dalla risposta di Israele
Pessima notizia per Netanyahu. Dilemma che si somma ad altri: lanciare una massiccia rappresaglia e al tempo stesso negoziare con Hamas il rilascio dei 164 ostaggi nascosti dagli islamisti nei tunnel di Gaza (quando in passato ci sono voluti addirittura anni per riportare a casa singoli militari o addirittura le loro spoglie); cedere o no alla eventuale richiesta di uno scambio con detenuti palestinesi (spesso prigionieri senza processo); prevenire nuove tensioni nelle città “miste” (Haifa, Lod, Giaffa) già teatro in un recentissimo passato di scontri e violenze fra ebrei musulmani.
Su Netanyahu, il premier più longevo della storia nazionale, piovono critiche per non aver ascoltato i moniti di servizi segreti e di noti analisti sull’inevitabilità di un imminente attacco da Gaza. Facendo piombare il suo Paese in una “sindrome da Kippur” (anche mezzo secolo fa Israele si fece sorprendere dalla simultanea offensiva della Siria sul Golan e dell’Egitto nel Sinai), e da un’angoscia nazionale che ricorda l’11 settembre americano. In questo, le responsabilità del premier sono indiscutibili. A media scadenza non è escluso che tutto gli ripiombi addosso come un boomerang. Non subito, adesso è il momento dell’obbligata unità nazionale in un Paese già lacerato, diviso in tribù inconciliabili, in una convivenza e una tenuta democratica a rischio, come ha ammonito l’anno scorso un allarmato ex presidente Rivlin. La ‘disciplina collettiva’ contro il nuovo nemico fa sperare al premier il ricompattamento della nazione. Addirittura la prospettiva di un governo di unità nazionale, tutti dentro, nonostante la presenza degli impresentabili schieramenti dell’ultra destra nazional-religiosa (razzista e decisa all’annessione completa dei Territori occupati, ottimo carburante per l’offensiva jihadista). “Grande coalizione” che possibilmente tagli i fili della contestazione massiccia che ha riempito le piazze (anche di ufficiali riservisti ora disciplinatamente al fronte) contro i liberticidi progetti di riforma della giustizia, da sottomettere al controllo del parlamento, quindi della maggioranza, perciò dello stesso premier che cerca di sottrarsi al verdetto dei giudici per le accuse di corruzione attiva. Sovrabbondano quindi le ragioni, i temi controversi, i riflessi internazionali, il cangiante quadro regionale con cui fare i conti di fronte a un mosaico in continuo movimento.
Keystone
Un bambino palestinese a Gaza
C’è anche lo shock di Israele a cui si contrappone il simmetrico entusiasmo di molti palestinesi che assaporano (almeno per oggi) l’idea di un’insperata rivincita dopo oltre mezzo secolo di una repressione e occupazione, che han fatto della Cisgiordania quel sistema di ‘apartheid’ denunciato da diverse organizzazioni umanitarie, compresa l’israeliana “B’Tselem”. Un sistema penetrato con i suoi veleni nel tessuto geografico e abitativo, sociale e umano. Costatazione non eludibile. Nemmeno nei giorni del rispetto certo dovuto al lutto della nazione aggredita. Nemmeno di fronte al capitolo forse più intimamente devastante della sua tormentata storia.
Keystone
Venticinquemila candele per ricordare la morte di Rabin