La morte di Messina Denaro non sancisce la fine dell’organizzazione mafiosa, che in 160 anni di storia è sempre stata capace di assorbire i colpi
Matteo Messina Denaro, con quel doppio cognome che richiama i quattrini, ovvero il fine ultimo di Cosa Nostra, è il terzo boss mafioso che muore di malattia in carcere. Stessa sorte era infatti toccata prima a Bernardo Provenzano, poi a Totò Riina. I quali, essendo di un’altra generazione rispetto al capomafia ucciso da un tumore appena otto mesi dopo l’arresto, interpretavano l’organizzazione criminale siciliana così come ci è stata tramandata da una narrazione pluridecennale. Ovvero una mafia delle campagne, esclusivamente interessata al controllo delle sue molteplici attività fuorilegge, ma assolutamente inossidabile a fattori quali look e mondanità. L’esatto contrario del Matteo Messina Denaro che indossava capi firmati, teneva alla forma fisica e si atteggiava a tombeur de femme.
Tanto per ricordare: Bernardo Provenzano, per 20 anni ritenuto il capo dei capi di Cosa Nostra, venne arrestato in una stamberga nelle campagne di Corleone, dove regnava la sporcizia. Sia Provenzano che Riina, come pure Matteo Messina Denaro, anche dopo l’arresto non hanno mai aperto bocca. Anzi, il boss morto l’altroieri a 61 anni in un ospedale dell’Aquila nel reparto destinato ai detenuti, aveva detto agli inquirenti che se non si fosse ammalato e non avesse dovuto sottoporsi, regolarmente, alla chemioterapia, non avrebbe abbassato la guardia e non l’avrebbero preso. Forse è stato arrestato anche perché le tecniche investigative negli anni sono migliorate se si pensa che, nel 2003, Provenzano andò indisturbato a farsi operare sotto falso nome a Marsiglia di un cancro alla prostata, per poi tornarsene in Sicilia, dove fu arrestato solo tre anni dopo.
La ferocia fu il denominatore comune dei tre capimafia, soprattutto di Matteo Messina Denaro e di Totò Riina, soprannominato “la Belva”. Tra le tante nefandezze attribuite al primo, spicca l’ordine di aver fatto uccidere e sciogliere nell’acido il figlio dodicenne del pentito Di Matteo. Quanto a Totò Riina fu l’ideatore delle stragi di mafia dei primi anni 90, costate la vita, tra gli altri, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Stragi che misero in ginocchio i governi italiani dell’epoca, costretti da Riina a un’umiliante trattativa con la mafia, pena l’intensificarsi degli attacchi sanguinari alle istituzioni. Provenzano, invece, si dissociò dalla strategia stragista, ritenendola esiziale per l’organizzazione, creando in tal modo una spaccatura ai vertici di Cosa Nostra. Cosa Nostra che, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro non ha più una Cupola ma comunque sta cercando di riorganizzarsi, come ha dichiarato a laRegione il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia, recentemente ospite dell’Endorfine Festival di Lugano.
Insomma, anche dopo la morte di Messina Denaro la guerra contro Cosa Nostra non è vinta, considerando che stiamo parlando di una struttura che ha 160 anni di storia e che è sempre stata capace di assorbire i colpi. Anzi, in alcuni casi è riuscita a girarli a proprio vantaggio. Pensiamo solo al fatto che grazie al ruolo di Lucky Luciano, un boss in carcere negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, gli alleati sarebbero stati facilitati nella conquista della Sicilia. In cambio Luciano venne liberato e si stabilì in Italia, dove contribuì ad aumentare il peso della mafia siciliana nel traffico internazionale di eroina.