Qualcosa non torna, dicono i sindacati. Gli imprenditori replicano: richieste ‘esagerate’ vanno bocciate. Ma profitti e produttività continuano a crescere
Il più elementare dei modelli grafici di un circuito economico ci fa capire che, tra famiglie e imprese, ci sono due tipologie di scambi. Nel primo flusso le famiglie si presentano come manodopera, forniscono del lavoro alle imprese e ricevono in cambio un salario. Nel secondo flusso, invece, le famiglie compaiono nella veste di consumatori per acquistare dalle imprese beni e servizi, prodotti per i quali pagano un prezzo che diventa ricavo per le aziende. Quello che il grafico a priori non ci dice, ma che non è difficile da intuire, è che il secondo flusso non può esistere senza il primo, cioè le famiglie senza salario non hanno modo di acquistare prodotti, non possono diventare consumatori e così il circuito si interrompe. Tale caso estremo ci porta a una seconda considerazione che il modello suggerisce, anche se non lo indica in maniera esplicita: tra il primo e il secondo flusso di scambi esiste un rapporto direttamente proporzionale, ovvero – ceteris paribus – quanto maggiore è il salario che le famiglie ricevono per il loro lavoro, maggiore sarà la quantità di beni e servizi che potranno acquistare dalle imprese.
Volendo rendere leggermente più complessa la situazione, potremmo analizzare quelle particolari circostanze in cui il medesimo salario, diciamo 5’000 franchi al mese per un impiego a tempo pieno di 40 ore settimanali, per una svariata serie di motivi, può ora essere scambiato con una minor quantità di prodotti rispetto all’anno precedente. È entrata in gioco l’inflazione.
Esiste tra l’altro una situazione ancora più anomala, quella in cui non solo gli stessi 5’000 franchi ottenuti in cambio di una prestazione lavorativa di 40 ore alla settimana si “trasformano” in un numero inferiore di beni e servizi rispetto al passato; addirittura, grazie ai progressi tecnologici, può contemporaneamente diminuire il tempo necessario per produrre i beni e i servizi che prima si potevano acquistare grazie al frutto monetario di 40 ore lavorative, ma ora non più. Abbiamo introdotto nel nostro modello teorico i concetti di salario reale e produttività del lavoro.
Qualcosa però non torna, dicono per esempio i sindacati. Parliamo del presente. Nella nostra realtà, mentre produttività del lavoro e profitti aziendali continuano a crescere, il salario reale dei lavoratori diminuisce per il terzo anno consecutivo. Ed è la prima volta che ciò si verifica nel dopoguerra. La logica, presente anche nel modello teorico che abbiamo appena analizzato, direbbe che una piena compensazione del rincaro per i lavoratori non solo gioverebbe loro; a guadagnare sarebbero pure le imprese, che vedrebbero inalterato il livello di consumo delle famiglie, cioè delle loro vendite. Invece certi attori, come l’Unione svizzera degli imprenditori, invitano a respingere le richieste di adeguamento salariale “esagerate”. Lamentano che l’economia in Svizzera “si sta raffreddando notevolmente”, senza probabilmente accorgersi che con il loro agire stanno contribuendo alla frenata. Qualcuno tra gli imprenditori sostiene pure che il raffreddamento è provocato dall’aumento dei tassi d’interesse. Quell’inasprimento della politica monetaria attuato dalla Banca nazionale che, in teoria, doveva essere il “rimedio” più adatto per fermare i rincari, ma che pare stia creando altri problemi. C’è poco da sorprendersi, però: partendo da una diagnosi sbagliata è pressoché impossibile azzeccare la cura.