È scaduto stanotte l’ultimatum dell’Ecowas ai golpisti nigerini sostenuti dalle milizie russe del Gruppo Wagner
Ultimatum scaduto ieri sera. Improrogabile secondo l’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest. Un’altra guerra oscura gli orizzonti del Sahel e pure, di riflesso, i nostri. Lontana sì, ma di fatto solo geograficamente da quella che ha visto la Russia tentare di cancellare a suon di bombe le frontiere del vicino ucraino.
Che al golpe nigerino non sia estranea Mosca lo attestano le bandiere russe sventolate dai manifestanti pro putschisti e il sostegno al regime golpista di Abdourahmane Tiani ribadito da Yevgeny Prigozhin, già attivo con le sue milizie Wagner nel vicino Mali e in buona parte dell’arco centroafricano. Certo, il Cremlino ha preso le distanze dal golpe, ma Mosca ci ha abituati da tempo al doppiogiochismo, soprattutto quando può incassare i dividendi della destabilizzazione.
Il presidente nigerino democraticamente eletto Mohamed Bazoum è sempre ostaggio dei golpisti, che non cedono e rivendicano l’appoggio di tre Stati, guarda caso tutti con un solido curriculum antidemocratico: Guinea, Mali e Burkina Faso, cinque golpe in tre anni. Scaduto il termine del 6 agosto, con in testa la Nigeria gli Stati dell’Africa occidentale promettono ora l’intervento armato: fino a 50mila uomini per ristabilire la democrazia in un Paese misero (tra i dieci più poveri al mondo) quanto fondamentale.
Grande due volte la sua ex potenza coloniale, il Niger fornisce alla Francia e all’Europa una percentuale importante di uranio naturale (circa il 20% del fabbisogno, prodotto in buona parte da un consorzio pubblico franco-nigerino) e dopo il parziale fallimento dell’operazione militare in Mali è divenuto un’importante pedina nella lotta contro il terrorismo jihadista. Anche la Cina, con l’astuta discrezione che caratterizza la sua progressione imperiale in Africa (basti pensare al controllo dell’estrazione di cobalto in Congo) ha ormai importanti interessi in questo Paese del Sahel: estrae uranio tramite la China national nuclear corporation e sta già costruendo un oleodotto che dovrà portare il petrolio (di cui il Niger ha enormi riserve) fino ai porti marittimi del Benin. Pechino non ha interesse nella destabilizzazione del Paese; questo potrebbe contribuire a disinnescare la miccia, anche se le speranze sono ben risicate.
Fondamentale quanto sta succedendo a Niamey lo è anche nell’ottica di un potenziale effetto valanga che rischierebbe di travolgere a suon di golpe le fragili democrazie regionali, a cominciare dalla Nigeria e dal Senegal. Senza dimenticare l’enorme questione dei profughi che giungono in Europa: un quinto di essi, secondo Medici senza Frontiere, transita proprio dal Niger.
In Africa occidentale siamo ben distanti da quella “fine della storia” che doveva preannunciare il definitivo trionfo delle democrazie liberali e dello Stato di diritto. La Francia può rammaricarsi di aver puntato tutto sulla sicurezza militare contro il terrorismo islamista, trascurando i bisogni della popolazione. Anche se le sue responsabilità sono limitate, la retorica anticoloniale dei nuovi padroni di Niamey attecchisce in alcune frange della popolazione e rende un intervento militare francese ancor più inopportuno.
Se guerra in Niger ci sarà, lo sarà verosimilmente senza l’Europa. Anche se in Europa, in un modo o nell’altro, inevitabilmente approderà.