C’è chi vorrebbe la montagna come uno spazio libero che non appartiene a nessuna religione dove a parlare sono solo gli elementi della natura
Sosto, 2’220 metri, sfoglio il taccuino di vetta accanto alla croce. ‘Vista magnifica ma niente ristorante. Manca la birra!’. E ancora: ‘Una cima come il Sosto: la distanza più corta che mi separa dal creatore’. Oppure: ‘Nonna, questa salita è per te. Da lassù guidaci sempre con la tua grande voglia di vivere’. Infine: ‘Quassù ci sentiamo uomini liberi’. Sono alcuni pensieri, tutti firmati, scritti negli anni da chi è arrivato in cima al ‘Cervino della valle di Blenio’. Si respira soprattutto soddisfazione per avercela fatta, meraviglia per la potenza della natura, alcuni (pochi a dire il vero) rivolgono lo sguardo al Divino, altri offrono il sudore della salita a chi hanno amato e non c’è più. Ciascuno sale con il proprio bagaglio mentale fatto di pensieri, aspettative e scende forse più leggero. Il silenzio della vetta ci dà una diversa prospettiva sui problemi quotidiani. Da lassù sembrano piccoli e forse anche insignificanti. Mette una distanza tra noi e il chiasso del mondo. Ci ricorda anche quanto siamo vulnerabili; in ogni istante possiamo perdere tutto. Rimette in un certo senso le cose nel giusto ordine. Avere o meno una croce in cima a una montagna, che differenza fa?
Se lo chiedono in molti in questi giorni di polemica in Italia dopo che il direttore editoriale del Club alpino italiano (Marco Albino Ferrari) a un convegno ha avanzato l’ipotesi di evitare nuove croci sulle montagne, senza toccare quelle che già ci sono, testimonianze di uno spaccato culturale. I motivi: le mutate esigenze paesaggistico-ambientali (infatti ci si prende sempre più cura dei rifugi e delle vie esistenti senza fare nuovi innesti) e anche il sempre più ampio dialogo interculturale. Immediate e veementi le reazioni di vari schieramenti politici: ‘Le croci non si toccano’.
L’argomento ha sempre diviso e acceso gli animi rendendo spesso il confronto un dialogo tra sordi. C’è chi difende le croci, simbolo di una cultura e tradizioni da difendere, da mettere su ogni vetta. C’è chi chiede invece che si limiti la marcatura cristiana delle vette (fino a prova contraria, di tutti) considerandolo un atto irrispettoso verso chi professa credenze diverse (anche la libertà di non credere). C’è poi chi vuole godere della bellezza inalterata della natura, uno spazio libero che non appartiene a nessuna religione. La croce più alta d’Europa sorge dal 1969 sul Vordere Kreuzjoch (2’845 m), nella parte austriaca del gruppo del Samnaun. È alta 17,3 metri e larga 10,39. La si vede persino in Google Earth. Una vera esagerazione! Ma che cosa rappresenta oggi la croce di vetta? È un modo di dire grazie? Di onorare chi è caduto? Sostiene semplicemente il contenitore del libro di vetta? Marca un confine? Allontana le forze del male e invoca protezione divina sulle valli sottostanti? Forse di tutto un po’.
Personalmente, se la croce non è invadente, lassù non mi dà alcun fastidio. Nemmeno le bandiere di preghiere tibetane che sventolando sembrano irradiare il potere dei mantra tutto intorno. Sono simboli esterni. Basta che siano discreti e rispettino l’equilibrio del luogo, dove la natura parla già con la forza dei suoi elementi. E poi, la vera spiritualità è coltivata con umiltà nell’intimo, tradotta in gesti quotidiani, che segnano un cammino. La forza viene dalla pratica, dalla convinzione, dalla fede, non da una croce.