laR+ IL COMMENTO

Darwinismo navale

L’ultimo naufragio al largo della Grecia dimostra l’ipocrisia e l’inefficienza della politica europea

In sintesi:
  • Il sistema serve solo a finanziare tagliagole e aspettare che la gente anneghi
  • Le dimostrazioni di cordoglio una volta successo il peggio sono surreali
  • Urgono un piano di salvataggio e nuovi canali per l'accoglienza legale
(Keystone)
17 giugno 2023
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La rotta che ha condotto centinaia di migranti fino ai fondali dell’Egeo non inizia a Tobruk, in Libia, e neppure in qualche remoto villaggio africano o asiatico. Parte semmai da Bruxelles e dalle altre capitali europee, Berna inclusa. Suona retorico, d’accordo. Però è lì che si è deciso – deliberatamente, sistematicamente – di ridurre la gestione dei flussi migratori a puro darwinismo navale: troviamo scuse per non soccorrere nessuno, stiamo a vedere se qualcuno sfugge ai pesci, poi casomai ci inventeremo qualcosa per rispedire indietro anche lui.

Le ricostruzioni del naufragio bucano anche questo canotto di sotterfugi. Dalla Libia molla gli ormeggi uno di quei pescherecci stracarichi che le “autorità” locali lasciano partire, per arrotondare coi risparmi di chi scappa quanto incassano dall’Europa per tenerseli; a un certo punto iniziano le difficoltà, le vedono tutti: un aereo di Frontex sorvola l’area, due motovedette identificano la nave, una Ong segnala decine di telefonate per chiedere aiuto (i “migranti con lo smartphone”, già); le foto mostrano i passeggeri con le braccia tese verso il cielo; qualcuno dal ponte chiede cibo e acqua, ma non assistenza: teme che li rispediranno indietro, vuole arrivare in Italia a costo di morire provandoci; la guardia costiera greca lo sa e ne fa un pretesto per prendere tempo, sperando che il barcone passi la linea immaginaria che lo separa dalle acque italiane, così la rogna diventa di qualcun altro. Intanto passano ore, giorni. Tutti aspettano per vedere che succede, come se fosse un film. Il finale, scontato e desolante, è di terza visione.

Stavolta non c’è il governo Meloni di mezzo, non possiamo dare la colpa ai “fascisti” o a Capitan Salvini. Meglio così, perché al di là dei loro toni belluini, il problema è strutturale. Negli ultimi decenni i leader europei – quelli di destra e quelli di sinistra – si sono illusi di poter trattare coi signori della guerra affinché blindassero i migranti nei loro lager, concedendogli spesso una fiducia che ai vertici Ue non s’accordano neppure tra di loro. Hanno smantellato il soccorso in mare, oltre a cercare di rimandare tutti “a casa loro” (che casa loro non è, e se mai l’è stata, ora è un cumulo di macerie). L’ultimo esempio viene dalla miniriforma europea decisa una decina di giorni fa, che anche la ministra della Giustizia socialista Elisabeth Baume-Schneider ha salutato come “passo storico”, ma servirà solo a respingere più facilmente i richiedenti asilo. Ecco la “casta immigrazionista”, come dicono i leghisti: pensa gli altri.

Insomma, alla fine fa un po’ impressione sentire la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dirsi “profondamente addolorata” – ci mancherebbe altro, poi – o quello del Consiglio Charles Michel dare la colpa al “business senza scrupoli dei trafficanti”, gli stessi che l’Ue foraggia generosamente tramite accordi spacciati per umanitari, come in Libia e ora, se Saied non tira troppo sul prezzo, anche in Tunisia. A voler essere appena meno ipocriti, si dovrebbe almeno ammettere che le politiche attuali non funzionano, che forse sarebbe meglio ripristinare piani di salvataggio efficaci e aprire nuovi canali per l’immigrazione legale, anche per non darla vinta a despoti e criminali. Ma soprattutto che non si può trattare un fenomeno epocale in guisa d’emergenza passeggera, come quei mocciosi che si mettono le mani sulle orecchie e urlano “gnègnègnè” pur di non ascoltare la realtà. Un po’ perché certi problemi, a forza di misconoscerli, non potranno che sommergere anche “noi”. E un po’ perché “loro”, intanto, continuano ad annegare.