Gli effetti di una crisi non vanno confusi con le cause che la determinano: ciò vale per la fine del Credit Suisse e per la caduta dell'Impero
Che le invasioni barbariche rappresentino il ‘momento clou’ del processo che portò alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, lo sappiamo tutti. Ce l’hanno insegnato a scuola: anno 476 d.C. Ma quali furono le cause che resero Roma così vulnerabile rispetto a un fattore – fino a un certo punto – esogeno? Su questo aspetto ci sono diverse visioni. Quelle più tradizionali parlano di una certa decadenza dell’esercito, di una forte crisi economica, delle dispute interne per il potere. Ce ne sono poi altre più romantiche, come quella formulata da Pierre Dockès nella sua ‘Liberazione medievale’, che descrive la fine dell’impero quale conseguenza della lotta degli schiavi per la loro libertà. Fatto sta che tutte queste motivazioni sembrano c’entrare qualcosa, ma da sole non bastano per spiegare come un costrutto così imponente possa essere stato raso al suolo. Un po’ come provare a capire la fine del Credit Suisse per via del drenaggio giornaliero di miliardi di franchi. Chiaro che la fuga di capitali porta una banca al tracollo (pardon: al salvataggio pilotato dallo Stato. Oddio, no: all’operazione commerciale, Consiglio federale dixit). Non vanno però confusi gli effetti di una crisi con le cause che la determinano.
Sulla caduta dell’Impero romano qualche lume arriva dallo storico britannico Chris Wickham. Nei suoi studi sulla morte della civiltà classica, Wickham osserva come l’evoluzione della dualità contenuta nella figura del cittadino/contribuente romano abbia giocato un ruolo fondamentale nell’erodere dall’interno la base oggettiva sulla quale poggiava la struttura imperiale. Il cittadino era per definizione un proprietario di terre, latifondista e schiavista che doveva, in quanto tale, sostenere attraverso i tributi la macchina amministrativa e militare dello Stato (che gli garantiva possedimenti e uomini al proprio servizio). L’ipertrofia di quello Stato avrebbe portato a un certo punto a una contrapposizione tra i suoi interessi privati in quanto latifondista e quegli interessi collettivi dell’insieme dei cittadini. Una contraddizione che, giunta all’apice, portò buona parte della cittadinanza a trovare nell’elusione dei propri oneri l’unico modo di salvaguardare ricchezza e posizione; a detrimento, ovviamente, della sostenibilità e in ultima istanza dell’esistenza stessa dell’impero.
Pensiamo ora ai consulenti di Credit Suisse sparsi per il mondo e ai dirigenti di Paradeplatz per i quali, come notava di recente sulla sua ‘Tribuna’ l’avvocato Paolo Bernasconi, “l’appetito al rischio incontrollato era legato direttamente alla generosità dei bonus”. Uomini d’affari che nell’elusione di ogni regola vedevano la possibilità di massimizzare la propria retribuzione, in particolare quella variabile – molto in voga nel mondo delle finanze – condizionata dal raggiungimento di determinati obiettivi. Anche loro, come i vecchi cittadini romani, a un certo punto si sono trovati di fronte a una scelta: rispettare le regole della prudenza e del buon senso, attendendo ai propri obblighi di ‘due diligence’, e quindi rinunciare a qualche guadagno pur di contribuire alla salvaguardia della solidità e della reputazione della banca (reputazione uguale fiducia, fiducia uguale capitalizzazione); oppure perseguire a oltranza il proprio interesse, anche a scapito dell’esistenza stessa della struttura dalla quale emana la loro posizione e ricchezza.
A quanto pare, ancora oggi, tutte le strade portano a Roma.