Voto di protesta della Camera del popolo sulle garanzie statali per le nozze Cs/Ubs: un segnale al Consiglio federale affinché si dia una mossa
Il Consiglio federale dovrà produrre una decina di rapporti: per capire cos’è andato storto con Credit Suisse (Cs), se le norme ‘too big to fail’ vanno cambiate, se dirigenti e amministratori di Cs possono essere chiamati a rispondere in giustizia per la loro sciagurata condotta, e così via. È questo il magro bottino della sessione straordinaria delle Camere federali dedicata al tracollo della banca. Per il resto, sulle copiose garanzie statali a supporto del matrimonio forzato tra Cs e Ubs, i parlamentari avevano le mani legate: il denaro era già stato impegnato, blindato in virtù del diritto di necessità a cui si è appellato (nuovamente) il Consiglio federale. Un ‘no’ ai crediti urgenti non avrebbe cambiato nulla all’atto pratico. Sarebbe stato ‘soltanto’ uno schiaffo simbolico. Soprattutto al Consiglio federale. E all’artefice principale dell’operazione, la ministra delle Finanze Karin Keller-Sutter. Concedere garanzie statali per 109 miliardi di franchi senza l’avallo del Parlamento non è certo un bel biglietto da visita.
Consiglieri nazionali e ‘senatori’ lo sapevano bene. Sapevano altrettanto bene che potevano quantomeno definire ‘condizioni quadro’ per la concessione di queste garanzie. Ad esempio: ordinare al Consiglio federale di sottoporre al Parlamento proposte di modifica della legge, anziché semplicemente incaricarlo di scrivere rapporti. Oppure potevano mettere all’ordine del giorno anche delle mozioni, più vincolanti, come quelle (a firma socialista, già pronte per essere trattate ma scartate) che chiedevano di vietare i bonus e di rafforzare i requisiti in materia di fondi propri per le banche di rilevanza sistemica. Nulla di tutto questo è successo.
Sentitisi autorizzati a dire qualsiasi cosa (‘tanto non cambia niente, ha già deciso tutto il Consiglio federale’), liberati dal faticoso compito di costruire veri compromessi attorno a misure concrete, Udc, Ps e Verdi non si sono fatti pregare. Hanno sbandierato e declamato presunte ‘condizioni’. Di nessuna di queste alla fine è rimasta traccia. Spazzate via, cadute per lo più sotto il fuoco nemico (Plr, Centro e Verdi liberali), talvolta sotto quello degli stessi amici di circostanza. La disponibilità al compromesso dei tre partiti, già in assetto da campagna elettorale, si è dimostrata vicina allo zero. E così a prevalere, al termine di uno show nel corso del quale se ne sono viste e sentite delle belle, è stata una forte volontà di protesta. Funzionale più che altro a calcoli partitici, ancorché legittima e comprensibile.
Sta di fatto che il Parlamento resta con un pugno di mosche in mano. La Commissione parlamentare d’inchiesta probabilmente si farà, ma non prima dell’estate. E avrà tempi lunghi. Il Governo consegnerà i suoi rapporti “entro un anno”. Va bene: prima di decidere quali misure adottare, occorre capire cos’è successo. Il problema è che intanto Ubs – forte ormai anche di una garanzia statale di fatto – si accinge a diventare un mastodonte senza alcuna regola che la controlli. E poi, cosa ci sarà da scoprire? “Le riforme necessarie sono da tempo note a chiunque si occupi della situazione (...). La chiave (...) è la volontà politica”, ha ricordato alla ‘Woz’ Anat Admati, nota professoressa di finanza alla Stanford University.
Andrà come col salvataggio di Ubs? Con banche e partiti (Plr, Centro e Pvl) a battersi perché le nuove regole siano le più blande possibili? «Temo che non succeda niente e che tra un paio d’anni ci ritroveremo nella situazione di dover salvare la nuova Ubs», dice la ‘senatrice’ Eva Herzog. A pensarci bene, forse il ‘no’ del Parlamento un’utilità può averla: spingere il Consiglio federale a darsi una mossa.