Gli ultimi ‘test’ cantonali prima delle federali del prossimo autunno confermano: si va verso uno spostamento a destra, senza scossoni
Una volta vinci, la prossima perdi; quasi sempre, sconfitte e vittorie si misurano in pochi punti percentuali, in una manciata di seggi in più o in meno. La politica in Svizzera è così. Tranne rare eccezioni. Come nel 2015, anno della “crisi migratoria’, quando l’Udc alle elezioni del Consiglio nazionale avanzò del 2,83% sfiorando la soglia del 30%. O come nel 2019, quando ai Verdi – sull’onda degli scioperi per il clima – riuscì un vero e proprio exploit (+6,4%). Ma sono eccezioni, appunto. Perché all’occasione successiva, il pendolo oscilla quasi immancabilmente nella direzione opposta. Come se l’elettorato, in una sorta di catarsi collettiva, si dicesse: “Abbiamo esagerato, correggiamo il tiro”. Nel 2019 a farne le spese sono stati i democentristi (-3,8%). In autunno ad accorgersene saranno quasi sicuramente gli ecologisti.
Uno spostamento verso destra, un riequilibrio. Senza scossoni. Le elezioni cantonali a Ginevra, Lucerna e Ticino confermano in sostanza sia quanto indicano i recenti sondaggi, sia i risultati di buona parte degli scrutini cantonali di quest’ultimo anno: indietreggia chi ha fatto uno storico balzo quattro anni fa (i Verdi); progredisce chi allora aveva pagato dazio dopo il successo del 2015 (l’Udc). Gli altri marciano più o meno sul posto: il Plr perde un po’ dello smalto ritrovato con l’arrivo di Thierry Burkart alla presidenza; il Ps risale la china (non in Ticino, ma è un caso particolare); il Centro tutto sommato regge; i Verdi liberali, pur rallentando, possono restare ottimisti.
Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina. Quindi le accese discussioni sulla neutralità, ma anche i timori per l’approvvigionamento energetico, la perdita del potere d’acquisto, l’aumento delle domande d’asilo. E ora anche il tracollo di Credit Suisse. L’insicurezza pare essere la cifra del momento. Le preoccupazioni più astratte (?), come il cambiamento climatico, cedono il passo alla (concreta) voglia di stabilità. E in periodi così di solito è la destra a guadagnarci. Da qui a ottobre possono succedere ancora molte cose. Ad esempio un’estate torrida, che rilancia il dibattito sul clima (a proposito: il 18 giugno si vota sul controprogetto all’iniziativa per i ghiacciai). Ma la cornice entro la quale si svolgeranno le prossime elezioni federali non dovrebbe mutare granché.
Si respira anche, di questi tempi, un’aria di scontento e di protesta verso l’establishment. Strascichi del periodo pandemico. Ma non solo. Quest’aria investe in pieno buona parte dei partiti tradizionali. Anche in Svizzera, dove in diversi cantoni proliferano piccole formazioni più o meno anti-sistema e prendono piede quelle ben più solide dei ‘senza intestazione’ (oltre il 20% in Ticino) e degli astensionisti. Ne risulta una frammentazione del paesaggio politico, perlomeno a livello cantonale. Sul piano nazionale, invece, l’Udc può fregarsi le mani. Tanto più che la scomparsa di Credit Suisse dovrebbe fornire al primo partito del Paese un’ulteriore opportunità per profilarsi col suo discorso anti-elitario e nazionalista.