Netanyahu, pur di salvarsi, sta trascinando il Paese alla deriva con sé, calpestando la legge e chi deve tutelarla
“Democrazia occupante” viene anche definito Israele. “Occupante”, e lo sanno bene i palestinesi da oltre mezzo secolo oppressi, senza patria nonostante le risoluzioni dell’Onu, oggetto di un crudele apartheid, costretti a vivere dietro i “muri di sicurezza”, obbligati a subire la continua estensione delle colonie ebraiche. Ma comunque, al suo interno, pur sempre una “democrazia”: almeno parziale, visto il trattamento riservato al quindici per cento della sua popolazione araba, rimasta all’interno dei confini della nazione nata nel 1948. Confronto politico nazionale spesso duro, anche esagitato, con una rapida trasformazione della società sempre più estranea alle idee dei padri fondatori, e in perenne fibrillazione come segnalano i continui, inutili ricorsi anticipati alle urne. Paese precipitato nel caos, nelle larghe faglie di una lacerazione che – si dice forse esagerando – potrebbe essergli fatale.
L’“unica democrazia del Medio Oriente”, come ama spesso definirsi, conosce così la crisi più grave della sua storia e questo grazie proprio a un vigoroso soprassalto… democratico. Fiumi di manifestanti che da mesi scendono nelle piazze per contestare la progettata riforma della magistratura: revisione brutale, che non solo depotenzierebbe (in un Paese senza Costituzione) i poteri della Corte suprema, addirittura la annichilirebbe, cancellerebbe la divisione dei poteri, porrebbe i giudici sotto la tutela di Parlamento e governo in carica, che ne potrebbero bloccare le sentenze, quelle sui palestinesi e sugli ultra-ortodossi esenti dal servizio militare. E annullare la decisione di processare il premier Benjamin Netanyahu per corruzione e abuso di potere.
Per salvare sé stesso, dice lo scrittore David Grossman, “Bibi” non si preoccupa di portare la nazione alla rovina. Già due anni fa (sconfitto elettoralmente da una problematica coalizione di schieramenti troppo diversi) aveva lasciato Israele nel disastro: una (obiettiva) sconfitta militare nell’ennesimo scontro ‘missilistico’ con i fondamentalisti islamici di Hamas padroni di Gaza, e violenti scontri, come mai in passato, nelle cittadine e nei villaggi interetnici, con moschee e sinagoghe in fiamme.
Per riconquistare lo scorso novembre la poltrona di capo del governo, e rafforzare il suo personale record di premier più longevo dello Stato ebraico, l’intramontabile Bibi (figlio della storica “corrente riformista”, la più intransigente del progetto sionista) si era alleato con il peggio della politica israeliana di destra estrema: Bezalel Smotrich, campione della politica coloniale e identitaria, e soprattutto Itmar Ben-Gvir, seguace di un rabbino autore della strage anti-palestinese sulla tomba dei Patriarchi a Hebron, fondatore di un partito messo fuori legge per ideologia razzista e progetti di totale colonizzazione di Giudea e Samaria. Inoltre Ben-Gvir, che era tenuto sotto controllo dai servizi segreti dello Shin Bet, oggi è ministro della Sicurezza.
Il disastro era dunque più che preannunciato. Ora, sotto la pressione della piazza democratica, ma anche di ministri dissidenti, di molti riservisti, del capo dello Stato Isaac Herzog, Netanyahu, superando le minacce degli esagitati partner di governo, promette di congelare il progetto anti-magistratura. Un passo indietro rispetto al baratro. Che tuttavia rimane lì, vicinissimo. E che dovrebbe spingere Israele a una riflessione urgente sulla sua natura. Ancora più necessaria. Ma finora sempre elusa.