laR+ IL COMMENTO

La mondina, il carbonaio e la pomata miracolosa

L’ultimo rapporto Ustat conferma il divario del 20% tra salari ticinesi e d’Oltralpe

In sintesi:
  • La differenza aumenta insieme alla formazione
  • Ora aspettiamoci la solita sequela di sparate primanostriste e slogan reaganiani
(YouTube)
25 gennaio 2023
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I salari in Ticino sono di oltre il 20% più bassi rispetto al resto della Svizzera. Non che sia una grande novità, d’accordo. Ma i numeri servono per descrivere la realtà, non per inventarsela (anche se qualcuno, nell’iperbolico cantone dei mille istituti e pensatoi ad personam, prova a fare anche quello). Dunque ben venga il rapporto dell’Ustat che ci ricorda come stanno davvero le cose, dando solidità ai fatti e consegnando al dibattito ulteriori informazioni. Si osserva anche, ad esempio, che il divario retributivo cresce all’aumentare della propria istruzione, con buona pace di quelli che "non si forma abbastanza", sempre che la formazione pretesa non sia quella della mondina o del carbonaio.

Si conclude poi, una volta per tutte, che quel distacco non è dovuto alla struttura del mercato del lavoro: anche a parità di condizioni, la differenza risulta "quasi totalmente non giustificata da differenze strutturali". Va male soprattutto nelle attività manifatturiere e nell’immenso, informe e sregolato terziario. Infine, "proprio nella presenza storica e importante di lavoratori frontalieri in Ticino si può trovare un’altra giustificazione per questo divario (…); di fatto il mercato del lavoro attuale si è sviluppato nei decenni anche grazie alla possibilità di avere accesso a un’importante riserva di lavoratori stranieri a costo più basso rispetto ai residenti".

Ogni volta che escono dati di questo tipo, le reazioni sono prevedibili. Ci sarà chi propone di chiudere le frontiere, isolando l’economia locale da un intero continente nella speranza d’un vivere pseudoautarchico, dove chi può sposterà la fabbrichetta in Asia e chi non può si sfamerà di bacche e arbusti. Qualcun altro prometterà di metterci una pezza con la prossima grande idea, possibilmente formulata in un inglese da piazzista di pomate miracolose: una volta era la fashion valley, ora magari avremo la gaming o la crypto valley, che basta sentirle pronunciare ad alta voce per aver voglia di sfilarsi i timpani con un ferro da calza.

Soluzioni semplici non ce ne sono. Il Ticino deve ancora riprendersi dalla sbornia del segreto bancario e delle ricchezze d’importazione illecita, che per decenni hanno plasmato a loro immagine e somiglianza una parte rilevante e corsara della classe dirigente (non tutta, per fortuna). Prova ne sia il fatto che si continua a cercare la scorciatoia degli sgravi e degli affaroni alla Wanna Marchi, attirando qui gusci vuoti e produzioni insostenibili, che a loro volta spiazzano le altre prospettive di sviluppo. Oppure si agita davanti all’elettore il ninnolo xenofobo del "prima i nostri", di una rottura drastica coi Paesi in mezzo ai quali viviamo da sempre, salvo poi inventarsi sindacati fasulli pur di perpetuare lo sfruttamento degli odiati frontalieri.

Il problema è antico, ma la lotta contro certi divari – che il minor costo della vita non basta affatto a compensare – passa anzitutto dalla tutela del lavoro, sia esso indigeno o meno: l’Ustat nota che la situazione è un po’ meno grave dove sono in vigore contratti collettivi nazionali, che pure si cerca spesso di schivare o annacquare perché "da noi è diverso". Però è più facile prendersela col badino, strimpellare serenate reaganiane, imputare la critica al "risentimento". Difficile semmai è guardare in faccia la realtà, con tutti i suoi numeri.

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