Le principali forze politiche nazionali proclamano i loro obiettivi. Ma la loro influenza sul corso degli eventi è limitata.
Riconquistare 100mila elettori (Udc); confermarsi seconda forza del Paese, guadagnando seggi al Nazionale e conservando gli attuali sette al Consiglio degli Stati (Ps); sorpassare il Ps e diventare il secondo partito, alle spalle dell’Udc (Plr); scavalcare il Plr e issarsi al terzo posto, legittimando l’ambizione di entrare in Consiglio federale (Verdi); guadagnare terreno nei popolosi cantoni dell’Altopiano, mantenere la posizione nei bastioni tradizionali (Centro); superare la soglia del 10%, tornare agli Stati (Verdi liberali).
Mancano meno di dieci mesi alle elezioni federali. In queste settimane i partiti nazionali mostrano i muscoli, proclamano ambiziosi obiettivi. Le loro segreterie scaldano i motori. Si affinano temi e strategie in vista della scadenza del 22 ottobre. Ci sono membri e simpatizzanti da galvanizzare, indecisi da convincere.
Va in scena un rituale che si ripete ogni quattro anni. Attori principali dello spettacolo, i partiti nazionali hanno nondimeno un’influenza limitata sul suo svolgimento: il loro reale potere sul corso degli eventi rimane modesto. Per diverse ragioni.
La prima: spesso è il contesto nazionale e internazionale a giocare un ruolo decisivo. Nel 2015 la crisi migratoria mise le ali all’Udc. Nel 2019 quella climatica portò a una storica progressione di Verdi e Verdi liberali; e grazie allo sciopero delle donne, la presenza femminile in Parlamento uscì rafforzata. Stavolta la crisi è energetica, oltre che migratoria (di nuovo); se ci mettiamo anche la guerra in Ucraina, con il corollario di apprensioni circa la sicurezza militare, è facile pronosticare un’avanzata della destra (Udc e Plr).
Seconda ragione: i partiti nazionali possono sì contribuire alla definizione del quadro della contesa, scegliendo ciascuno le proprie priorità, ma poi la competizione vera e propria si svolge nei cantoni. E qui a pesare sono non di rado persone, fattori e temi specifici – oltre che più o meno contingenti – delle singole realtà.
Le ‘centrali’ dei partiti hanno scarsa presa in particolare sulle elezioni per il Consiglio degli Stati. In scrutini che si svolgono quasi ovunque col sistema maggioritario, a contare – spesso più del ‘colore’ politico – sono i candidati (scelti dalle sezioni cantonali). Per questo l’Udc, che fatica a presentare profili accettabili per una maggioranza degli elettori, ha tutt’oggi un peso marginale alla Camera alta. E siccome la Camera dei cantoni, in un sistema che poggia su un bicameralismo perfetto, funge spesso da contraltare politico al Consiglio nazionale, l’effettiva forza d’urto del primo partito del Paese va relativizzata. A dispetto di quanto lasciano intendere i sondaggi, che si limitano a fotografarne la forza elettorale (in percentuali e seggi al Nazionale).
I partiti, infine, stentano a intercettare quell’‘elettorato d’opinione’ che non si identifica (più) con un determinato schieramento. Gli elettori ‘ballerini’ costituiscono un bacino crescente e non trascurabile di voti. Se a loro sommiamo gli astensionisti più o meno incalliti (per non parlare di quel 25% circa di stranieri residenti esclusi dall’esercizio dei diritti politici), allora ben si capisce fin dove arrivi l’effettiva influenza dei partiti.
Un’ultima annotazione. Per quanto i partiti strepitino, o incombenti e gravi siano le crisi globali, in Svizzera vittorie e sconfitte alle elezioni federali si misurano quasi sempre in 1-2 punti percentuali in più o in meno. E quando non è così (come nel 2019), di solito gli elettori o il sistema (il Parlamento, la democrazia diretta) correggono gli eccessi alla successiva occasione.