Lasciare fu in realtà un ammirevole atto di coraggio. Che lo rese, anche agli occhi di critici e agnostici, meno distante e algido
"Meas ingravescente aetate…". Poche parole che nel febbraio 2013 sorpresero il mondo e sconvolsero un papato tradizionalista. Con esse Benedetto XVI annunciava la sua abdicazione. Semplicemente per il peso dell’età avanzata, aveva spiegato. Rinuncia senza precedenti dal 1415, ma allora era addirittura l’epoca dei "tre papi" in contemporanea, e Gregorio XII era stato costretto all’abbandono per chiudere lo scisma d’Occidente; ancor prima, oltre a quelli colpiti da infermità davvero debilitanti, vi era stato il pontefice del dantesco ‘gran rifiuto’, Celestino V, che si tolse anello, tiara e mantello dopo soli tre mesi e mezzo, atto di ribellione a pressioni e minacce. Il peso degli anni, disse dunque 10 anni fa il papa tedesco; e inevitabilmente il paragone corse al suo predecessore Giovanni Paolo, fino al termine in irriducibile cammino sul Golgota della sua malattia. Ma a pesare, per Benedetto XVI, non fu solo l’anagrafe. Ormai c’erano in lui la sofferenza e il tormento di non riuscire a superare con il necessario vigore e progetti organici gli scandali all’interno della Chiesa (dallo Ior al Vatileaks), gli scontri con la curia, soprattutto il problema degli abusi di pedofilia, con i sacerdoti colpevoli ma non consegnati alla giustizia ordinaria.
Lasciare fu in realtà un ammirevole atto di coraggio. Che lo rese, anche agli occhi di critici e agnostici, meno distante e algido, più accettabile per quella umanissima debolezza. Era stata così travolta quella che viene oggi indicata come la ‘gentilezza’ di chi era stato definito ‘il pastore tedesco’, con inequivocabile riferimento al suo essere custode di ferro della dottrina (celibato dei preti, ruolo delle donne, esclusione dei divorziati non graziati dalla Sacra Rota e spesso dal loro patrimonio, condanna dell’omosessualità ‘socialmente pericolosa’). Guardiano inflessibile, già alla guida dell’ex Santo Uffizio nell’era di Wojtyla: quando procedette alla normalizzazione della Chiesa latino-americana, della sua parte di ‘teologia della liberazione’, negata dal pontefice polacco anticomunista: ricordate il suo dito indice ammonitore, sul capo di padre Ernesto Cardenal.
De-secolarizzazione delle società occidentali avanzate e purezza dottrinaria furono le stelle polari del suo pontificato, anche se il giovane Ratzinger venne definito ‘ribelle’ per la sua lettura radicale delle riforme conciliari. La sintesi più eloquente: un Benedetto XVI che nel nome della ‘sua’ visione dell’ecumenismo non negava il dialogo ecumenico, ma tracciando netti i confini entro cui proteggere il cattolicesimo. Così fu nei confronti dei protestanti. E naturalmente dell’Islam; a Ratisbona provocò la frattura più grave, col discorso su ragione e fede, religione e violenza: ma vi citò un imperatore bizantino secondo il quale Maometto portò "solo cose cattive e disumane", come la jihad. Lo affermò senza tener conto di altri possibili esempi, anche in campo cristiano.
Sottile teologo, ma comunicatore che spesso faticava a farsi capire. Soprattutto nelle intenzioni. Però non con quel suo clamoroso gesto che ne fece il primo papa emerito della storia, vissuto oltretutto più da pontefice pensionato che da reggente. "C’è un solo papa", disse riferendosi al primato di Bergoglio. Ma, il soggiornare entro le mura vaticane, quelle due vesti bianche fianco a fianco, e talune maldestre o inopportune sortite di Benedetto, sono state puntualmente strumentalizzate dai critici di Francesco. Che tuttavia ne ha sempre difeso la mite lealtà.