Gli italiani disposti a provare qualsiasi cosa pur di vedere un cambiamento. Ma il cambiamento, finché ci saranno Casini e i suoi emuli, pare impossibile
I dietrologi, i politologi a gettone con i moduli ormai ingialliti a cui cambiano solo i nomi del leader di turno, quelli con la palla di vetro rimasta indietro come orologi dalle pile scariche che si mettono lì a spiegarci – dopo – quello che non avevano capito prima, possono dire quel che vogliono, oggi, a giochi fatti: invocare l’Apocalisse, riesumare il Ventennio, dare la colpa a Renzi, che tanto c’è abituato, o a un altro partito a caso, come stanno facendo in queste ore tutti i leader sconfitti. Ma le elezioni italiane sono una cosa semplice: un numero variabile di candidati rincorre un seggio per un’intera campagna elettorale, poi si vota e alla fine vince Pier Ferdinando Casini.
Dietro la sua ennesima elezione, in quel di Bologna – dove è stato messo capolista dal Pd, preferito, anzi imposto, rispetto a candidati più giovani e radicati sul territorio – c’è più Italia di quanta ce ne sia nella vittoria di Giorgia Meloni, che probabilmente non ha vinto perché il Paese è di destra, pronto a marciare compatto su Roma, ma perché è rimasta l’unica a non aver mai governato.
Casini con Enrico Letta (Keystone)
Gli italiani la stanno provando come si prova un piatto diverso nel solito ristorante sotto casa, dove si è già provato tutto e non ha mai davvero convinto nulla: "Ah, gli spaghetti al tofu merluzzato con pistacchio, armadillo, quercia transalpina, caffè predigerito da un paguro e sale dolce? Sfiziosi, li provo". Una cosa così. Poi, che un piatto del genere non sia una delizia si capisce già dal mix di ingredienti, se ci pensi un attimo, ma ci sarà sempre qualcuno che vuole assaggiarlo.
Sia chiaro, Meloni di destra lo è, e si accompagna a tangheri della peggior specie, gente che pensa che fare il saluto romano sia una cosa normale. Anzi, a dirla tutta, i toni e i temi non sono da centrodestra – come ci si ostina a definire Fratelli d’Italia in Italia –, ma da estrema destra, come sottolineano i giornali anglosassoni, che almeno chiamano le cose col loro nome. Ma tra parole (anzi urla) e fatti ce ne corre.
Torniamo a Casini, politico di lungo corso entrato in Parlamento per la prima volta nel 1983 tra i democristiani, il partito che era tutto e niente. Casini è stato eletto negli anni con la Dc, il Ccd, il Cdu, la coalizione di Berlusconi, la Lista Monti, il centrosinistra, da sposato, da single, da risposato e da divorziato, lui, cattolico devoto. Non stupirebbe ritrovarselo prima o poi a Berna, o con uno scranno all’Assemblée Nationale, in Francia, come Garibaldi (senza i meriti di Garibaldi). Casini non è di destra né di sinistra, essendo tutto, a seconda della convenienza.
Ai tempi del tridente co Berlusconi e Fini (Keystone)
La maggioranza degli italiani è come lui, ma sta dall’altra parte della barricata, quella in cui si vota, non quella in cui si è votati: pensa a sé, rifiuta una visione d’insieme e può essere di destra al mattino e di sinistra la sera. Voterebbe Pol Pot, Godzilla, Mefistofele e perfino Meloni in cambio di uno strapuntino, un favore personale, una fila saltata – per un documento in Comune o una visita in ospedale – per sentirsi potente, nel suo piccolo, proprio come Casini.
L’italiano medio va dove lo porta il vento, mette una croce qua e se non funziona poi la mette là, e se non funziona ancora si affida alla sorte e ricomincia il giro della scheda, come se fosse un ‘gratta e vinci’. Casini però il vento non lo subisce, lo annusa in anticipo, e alla fine vince sempre, anche quando il suo partito perde, tanto mica è suo. Che gli frega. Si fa dare un passaggio in Parlamento e poi lo cambia.
Coalizione col Dalai Lama? (Keystone)