L’uscita di Boris Johnson ha (anche) altre motivazioni: soprattutto economiche. La miccia della polveriera sociale è ormai sempre più corta
Negli otto anni in cui Putin pianificava la sua guerra all’Ucraina (almeno dalla annessione della Crimea e del contemporaneo sostegno in uomini e armi alle ‘Repubbliche’ ribelli del Donbass), l’Europa aumentava le sue importazioni di gas e petrolio dalla Russia. Consegnando al Cremlino le chiavi della sua dipendenza energetica.
Un transitorio vantaggio economico (sul cui altare si ritiene di poter tutto sacrificare), ma soprattutto un errore strategico. Autentico abbaglio. Un deficit di conoscenza e di consapevolezza dell’ideologia che maturava nella mente, ma spesso anche negli interventi pubblici, dell’ex ufficiale del Kgb, che su uomini mentalità e metodi dell’ex servizio segreto sovietico ha fondato il suo potere e il suo cerchio magico.
Grave sottovalutazione degli istinti neo-imperiali del nuovo zar, che dalla Georgia alla Cecenia alla presa sulla Bielorussia aveva già dimostrato di cosa fosse capace pur di realizzare il suo progetto-ossessione di rianimare almeno parte dell’Urss collassata. È solo un tassello di una tragedia che, si dice, cambierà il mondo: rapporti internazionali, nuove alleanze, scambi commerciali, assetti sociali.
Matrioske ‘made in Russia’, dove fa capolino Johnson (Keystone)
Tutto è in gioco, mentre la guerra continua ("non avete ancora visto niente", minaccia Putin), le pedine sullo scacchiere diplomatico sono ferme, l’America cerca goffamente di "allettare" la Cina (che però Biden insiste nel definire la principale rivale "sistemica" degli Usa) promettendo di togliere i dazi di Trump se Pechino recide o quantomeno allenta l’alleanza con Mosca. Per ora prospettiva improbabile.
Se da una parte la Krepost Rossija (la fortezza Russia) rimane pur sempre – anche sul reale impatto delle sanzioni occidentali – "l’enigma circondato da mistero" di churchilliana memoria, dall’altra ben visibili e palpabili sono invece le difficoltà delle democrazie europee, e non solo. Che devono fronteggiare il boomerang, dagli effetti mal calcolati, della loro rappresaglia.
Non è vero che i crescenti affanni occidentali vadano tutti addebitati alle conseguenze della guerra. Fiammata inflazionistica e scarsità di materie prime, paralisi nella grande logistica per eccesso di richiesta erano già stati innescati prima del conflitto, rallentando e minacciando la crescita. La sfida di Putin è comunque un micidiale maglio, che colpisce famiglie e aziende. E non è questione di "scegliere fra pace e condizionatori", come disse sbagliando Draghi.
Protesta anti-Johnson sul caro-prezzi in un supermarket inglese (Keystone)
Si possono per esempio dare molte e valide spiegazioni alla caduta di Boris Johnson in Gran Bretagna, ma il "Guardian" mette ai primi posti il fatto che comunque oggi quasi una famiglia britannica su dieci non ha abbastanza da mangiare "semplicemente" perché l’impennata dei prezzi ha gonfiato il costo del cibo. E inutilmente, pochi mesi fa, il Financial Times si era appellato agli imprenditori inglesi, in affanno per la difficoltà di reclutare lavoratori, col titolo: "Sapete cosa c’è? Pagateli di più!".
Quasi ovunque (Svizzera compresa) mancano piani adeguati di sostegno mentre dalla Spagna all’Olanda, dalla Francia all’Italia (dove 2 lavoratori su 3 guadagnano meno di mille euro al mese) recenti proteste segnalano che la miccia della polveriera sociale è sempre più corta. Ed è una polveriera globale.
Troppi commentatori, con riferimento alle vicende londinesi, hanno parlato del ‘BorisExit’ come segnale di crisi del populismo. In realtà è stata solo la crisi di ‘un’ populista, oltretutto presunto. In realtà, la miniera del populismo è ancora ben rifornita. Soprattutto di stridenti ingiustizie sociali. E Putin, che domina su una Russia dove le disuguaglianze sono fra le più profonde al mondo, ci mette volentieri del suo.