Una parola magica, tanti (troppi) Paesi che si sono defilati: resta la sensazione di un’incompiuta, anche perché non si capisce cosa accadrà in Ucraina
Sbilenca come la guerra i cui danni vorrebbe rimettere a posto, la Conferenza di Lugano sembra un contenitore molto, troppo più grande di quel che effettivamente contiene. Questione di nomi, che mancano, e di parole che abbondano e si ripetono all’infinito in una serie di incontri con declinazioni diverse, ma che finiscono per assomigliarsi tutti, nei modi, nei toni, in quel tentativo di empatizzare con Kiev in giacca e cravatta e politichese, che sembra sempre una posa anche quando è mosso dalle migliori intenzioni. Ti viene il dubbio che avresti potuto scambiare gli ospiti di due tavole rotonde e nessuno – tantomeno loro – si sarebbe accorto della differenza.
Nella sala stampa, messa a debita distanza dai protagonisti, hanno messo una quantità tale di caffè che sembrava una dichiarazione d’intenti: "Prendetene quanto volete, ma cercate di rimanere svegli". Non è stato facile.
Cassis e, in collegamento, Zelensky (Keystone)
Sergio Endrigo, che non era un diplomatico, ma un cantautore, cantava: "Abbiamo parole per vendere, parole per comprare, parole per fare parole". Poi ci sono le parole per non dire niente: la più vuota, ormai la conosciamo tutti, è "resilienza", qui ripetuta come un mantra, fino all’ossessione, nella lingua franca del mondo contemporaneo, l’inglese ("resilience, resilience, resilience… "). La resilienza va di moda e – per chi abbocca – sta bene su tutto, dalla psicologia spicciola ai materassi in saldo, figuriamoci a una conferenza internazionale su un Paese aggredito.
Se produrrà qualcosa di utile lo scopriremo in parte oggi, in parte col tempo. Ma più si ascolta chi si alterna sul palco, più si tifa per chi – invisibile – si muove dietro le quinte, nella speranza di qualche risultato concreto, anche a lunga scadenza, almeno tramite chiacchiere diplomatiche nascoste all’uditorio: stile ‘Rumori fuori scena’, la pièce teatrale in cui ciò che vale la pena ascoltare e restituisce un senso al tutto non viene detto sul palco, ma alle sue spalle.
Cassis si è affrettato a ribadire che questo era "un calcio d’inizio" e che ci sarà presto una nuova conferenza per non lasciare il pallone rotolare da solo, ma la lista delle delegazioni, tenuta segreta fino all’ultimo, è stata una continua, tragicomica delusione. Certo, a Lugano è venuta la presidente della Commissione Ue Ursula von Der Leyen, ma – visto il deserto di volti riconoscibili –, la sua presenza era determinante per non aprire crepe tra Bruxelles e Berna in un momento in cui serve restare compatti.
Prove di trasmissione al Media Center di Lugano (Keystone)
Solo il Regno Unito, in prima fila accanto agli ucraini, ha mandato il proprio ministro degli Esteri. La Francia non aveva nemmeno un nome, uno qualsiasi, in lista; Usa, Germania e Italia hanno mandato seconde e terze linee. Altri Paesi Nato hanno annunciato in arrivo ministri diventati in volo viceministri e all’aeroporto generici attachés, abbassando talmente tanto la propria asticella da rendere l’asticella stessa il dettaglio (e l’interlocutore) più interessante.
Resta la sensazione di una Conferenza spiazzata come tutti noi dall’invasione del 24 febbraio. Concepita – prima della guerra – per soccorrere un malato non grave e rimasta in calendario per inerzia fino a oggi che la prognosi è più che riservata. Non sappiamo dove, come, quando e se la guerra finirà. Bisogna farsi trovare pronti, dicono. Tutti sappiamo per chi, resta da capire per cosa.