La Dichiarazione di Lugano convince i partecipanti e Kiev, ma il premier ucraino esagera e chiede per il suo Paese i soldi congelati degli oligarchi
Sette princìpi per settecentocinquanta miliardi di dollari. Perché esistono valori condivisi da cui non si può derogare, ma esiste anche il conto, enorme, salatissimo, che lascia una guerra. A fare il riassunto della Conferenza di Lugano ci ha pensato, senza troppi infingimenti – come solo chi ha le spalle al muro può fare – il premier ucraino Danys Shmyhal, con la frase "recovery is always about business ("La ricostruzione è sempre una questione di affari"). Lo ha detto al fianco del presidente svizzero - e anfitrione - Ignazio Cassis durante l’ultimo atto di una due giorni faticosa passata a cavallo tra ragione e sentimento, cuore e portafoglio.
L’Ucraina vuole la pace, un futuro e - possibilmente - anche un presente. La Conferenza di Lugano ha lasciato dei dubbi, ma ci ha dato una certezza sul percorso che Kiev dovrà intraprendere. Si trova davanti a un bivio: da una parte una strada più breve e accidentata da attraversare di corsa, prima che l’invasore russo si espanda ulteriormente, dall’altra una lenta e infinita salita il cui obiettivo è una democrazia compiuta con vista sull’Europa, non quella della cartina geografica, ma quella politica. Il problema è che non può scegliere, deve percorrere entrambe le strade.
Nonostante la comunione d’intenti e il grande fair play mostrati sul palco dalla coppia Cassis-Shmyhal, resta evidente nelle parole quali siano le priorità degli uni e degli altri. La sintesi è stata trovata e poi messa nero su bianco con la Dichiarazione di Lugano, divisa in sette punti ampiamente condivisi e condivisibili: partenariato, riforme, trasparenza (responsabilità e stato di diritto), partecipazione democratica, collaborazione a ogni livello, parità di genere (e inclusione sociale), sostenibilità. In pratica i 42 Paesi firmatari del documento hanno chiesto agli ucraini di diventare come loro, se non addirittura meglio. Non è difficile, spulciando nella lista, trovare chi sta ignorando uno o più di questi princìpi. Ma si sa, a dare buoni consigli sono capaci tutti.
La Conferenza stampa conclusiva (Keystone)
Il documento però ora c’è e inizia con una dichiarazione ben precisa in cui viene "condannata l’aggressione militare della Russia", a cui viene esplicitamente chiesto di "ritirare le proprie truppe dal suolo ucraino al più presto". E prosegue "reiterando" il "pieno supporto" alla "sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina". Ci si appella al rispetto del diritto internazionale, si cita il massacro deliberato di civili, ricordando ogni tipo di rischio associato alla guerra: economico, sociale, umanitario.
Cassis, dopo un minuto di silenzio in memoria delle vittime del conflitto, ha parlato di "prima tappa chiave di un lungo percorso", il famoso "calcio d’inizio", metafora sportiva ripetuta a più riprese da tutta la delegazione svizzera per mettere le mani avanti.
Il documento adottato getta le basi per il lavoro che aspetta l’Ucraina nel dopoguerra, assegnando inevitabilmente a Kiev il compito di pilotare la propria rinascita, sebbene con l’appoggio della comunità internazionale. Sempre secondo il documento, la ricostruzione dovrà includere tutti, un "tutti" talmente esteso da comprendere le minoranze locali e gli istituti internazionali, gli Oblast devastati dalla guerra e Stati lontani dall’Ucraina e tra loro. La rinascita passerà attraverso riforme definite "essenziali" (in primis contro la corruzione dilagante) e comprenderà aspetti economici, sociali e ambientali.
Cassis ha insistito molto sulla concertazione e sulla "buona volontà" che i Paesi hanno già mostrato e dovranno esibire anche in futuro. Mostrare il fronte compatto, e a guida svizzera, era una degli obiettivi dalla Conferenza ed è stato raggiunto: di tutti gli Stati presenti a Lugano solamente il Vaticano non ha messo la propria firma sul documento finale (a domanda specifica Cassis ha detto candidamente "non so rispondere"). La risposta probabilmente sta nell’equidistanza predicata (non senza critiche) da Papa Francesco. Ma resta un dettaglio. Le organizzazioni internazionali i cui nomi non appaiono non si sono tirate indietro all’ultimo, ma non hanno potuto firmare per ingessature e lentezze burocratiche interne (la Banca Mondiale, ad esempio, prima di dire sì deve chiedere un via libera a tutti i suoi membri).
La sessione di lavoro di ieri (Keystone)
Nel documento il senso dei sette punti cardine è stato ampliato per disegnare il contesto in cui l’Ucraina dovrà muoversi: sia il processo di ricostruzione che le riforme saranno monitorate dall’esterno tramite valutazioni periodiche. Un modo per far tenere a Kiev la barra dritta, ma anche una necessità, visto che il fine ultimo dell’Ucraina, a livello politico, resta l’ingresso nell’Unione europea. Il punto 3, la trasparenza, è stato l’aspetto più sottolineato da Cassis: "Il piano di ricostruzione dovrà essere responsabile nei confronti del popolo ucraino. Lo stato di diritto dovrà essere strutturalmente rafforzato e la corruzione sistemica eradicata. Tutti i fondi stanziati dovranno essere stanziati in maniera equa e trasparente".
Il vademecum sembra avere molta pazienza, e in parte ce l’ha, perché si riferisce a un’Ucraina pacificata, obiettivo ad oggi lontano. La prossima tappa della Conferenza sarà il prossimo anno nel Regno Unito, in cui si cercherà di passare da concetti sacrosanti quanto vaghi a un’applicazione più pratica e diretta. Ma da qualche parte bisogna pure partire.
Shmyhal ha fatto eco a Cassis esprimendo la propria gratitudine per gli aiuti promessi e per un documento dal forte significato simbolico. Ma lui ha meno pazienza. Sul palco ha detto che i lavori sarebbero già iniziati "fra quattro ore", facendo riferimento a una tavola rotonda organizzata nel pomeriggio il cui focus erano l’economia e il settore privato. "Tutto quello che è stato distrutto sarà rifatto meglio di prima", ha assicurato il primo ministro ucraino, che ha presentato un piano di ricostruzione monstre, eppure approvato all’unanimità da chi era a Lugano. Il costo per rimettere in piedi il suo Paese si aggira sui 750 miliardi di dollari. E stiamo parlando solo di infrastrutture. Ogni mese di guerra costa all’Ucraina ulteriori 5 miliardi al mese. Ma tutti sanno che prima o poi si tornerà a fare affari e i soldi torneranno, meglio esserci. "Recovery is always about business". Più trasparenza di così.
Shmyhal si è poi spinto oltre, chiedendo per il suo Paese gli asset congelati in giro per il mondo agli oligarchi e alle aziende direttamente collegate con il Cremlino: una cifra enorme eppure difficile da sbloccare e valutata tra i 300 e i 500 miliardi di dollari. "Serve una legge internazionale che una volta per tutte dica che chi invade un Paese senza essere provocato perde quel denaro, che viene messo a disposizione di chi è stato invaso. A livello nazionale il Canada sta lavorando in questo senso". Su questo Cassis ha frenato, ricordando come ogni Paese ha regole interne che non possono essere bypassate. Insomma, serve tempo per quello. E una volontà che molti, Svizzera compresa, forse non hanno.
Continuano Cassis e Shmyhal a dichiararsi d’accordo su tutto, poi parlano e non coincidono i tempi, le velocità d’esecuzione. Alla fine ribadiscono che esiste un’emergenza e una prospettiva di ampio respiro, che possono coesistere. Si sorridono anche quando non si capiscono, fila tutto liscio fino all’ultima domanda di una giornalista che chiede a Cassis di dare un voto alla Conferenza. Lui risponde, secco e seccato: "Questo non è un concorso di bellezza". Sipario.