Campane a morto alla Camera dei cantoni per il progetto di legge nato dalla mozione Abate sui ‘distaccati’ e sostenuto da quasi tutti i... cantoni
Non ci sarà alcuna disposizione specifica nella legge federale sui lavoratori distaccati a tutela delle normative cantonali (quella ticinese compresa) sul salario minimo. Al termine di un percorso parlamentare tormentato, martedì alla Camera alta sono suonate le campane a morto per il progetto di legge con il quale il Consiglio federale contava di attuare una mozione in tal senso dell’ex ‘senatore’ Fabio Abate. Il Consiglio degli Stati non si è limitato a questo. Ha pure adottato una mozione (non ancora trattata dal Nazionale) che chiede di sancire la prevalenza dei contratti collettivi di lavoro (Ccl) di obbligatorietà generale sulle leggi cantonali, specie in materia di salari minimi. Il suo autore, Erich Ettlin (Centro/Ow), ha ricordato come il ‘minimo’ in vigore dal 2017 a Neuchâtel e i 23 franchi all’ora concordati a Ginevra nel 2020 «mettono a dura prova un partenariato sociale collaudato».
Sono due colpi inferti ai salari minimi. L’argine al dumping alzato finora in alcuni cantoni (Ticino, Giura, Neuchâtel, Ginevra e Basilea Città) rimane così piuttosto fragile: sia sul piano sociale ed economico (una disposizione federale avrebbe garantito parità di trattamento sull’intero territorio nazionale tra le aziende elvetiche e quelle dell’Ue che ‘distaccano’ lavoratori in Svizzera), sia su quello giuridico (avrebbe rafforzato le leggi cantonali, rendendole meno facilmente attaccabili in tribunale). Per giunta, le basi giuridiche sui ‘minimi’ – poste da decisioni democratiche della popolazione dei cantoni interessati, poi confermate dal Tribunale federale – potrebbero diventare ancor più traballanti in futuro, qualora la mozione Ettlin dovesse conoscere un destino più fortunato di quello avuto dalla mozione di Fabio Abate.
Due considerazioni a margine. La prima è di ordine istituzionale. Al Consiglio degli Stati, l’appartenenza partitica passa solitamente in secondo piano rispetto alla difesa degli ‘interessi’ del cantone per il quale i ‘senatori’ vengono eletti. E se è vero (com’è vero) che due anni fa, nella consultazione, ben 23 governi cantonali su 26 si erano espressi a favore di una modesta revisione legislativa il cui input – detto en passant – era stato dato proprio dalla Camera dei… cantoni, allora martedì il risultato avrebbe dovuto essere diverso. Non è stato così: interessi di partito, ideologia, altro? Forse un po’ di tutto questo.
La seconda considerazione è di ordine politico, e riguarda l’Udc. Il partito che non manca occasione di professare il ‘primanostrismo’ in Ticino, a Berna fa il ‘primaltrista’. Perché adesso non si trattava del salario minimo in sé, ma di non favorire le imprese dell’Ue e il dumping salariale in quei cantoni che i ‘minimi’ li hanno già adottati. «Dobbiamo proteggere le imprese indigene», ha insistito il giurassiano Charles Juillard (Centro). Democentristi e liberali-radicali hanno preferito invece puntellare la cortina di ferro, temendo la diffusione dell’‘ideologia’ del salario minimo in quei cantoni (svizzero-tedeschi) che ne sono privi.
Solo il presidente del partito Marco Chiesa si è smarcato. Ma il ‘senatore’ luganese non si è esposto. Non sarebbe cambiato nulla se avesse preso la parola per difendere all’atto finale una modifica di legge sulla quale il governo ticinese contava. Ma il fatto che nessuno dei ‘suoi’ lo abbia seguito, qualcosa ci dice (quantomeno sulla sua capacità di persuasione in seno all’Udc nazionale). Sia quel che sia, c’è chi ha fatto peggio: anche il neocastellano Philippe Bauer (Plr) se n’è stato zitto, ma poi ha finito col votare contro un progetto che avrebbe consolidato il salario minimo che il suo cantone già conosce.