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Se Putin deve cambiare i suoi piani

È inevitabile constatare l’evidenza di una de-escalation delle pretese e ambizioni ufficiali di Mosca

keystone
28 marzo 2022
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Continua a consumarsi in Occidente lo scontro (‘dai nostri salotti’) sulle responsabilità della guerra ucraina. Ma intanto, cosa accade sul terreno? Cosa significa per il Cremlino passare alla ‘fase 2’ della guerra, annunciata un paio di giorni fa da Sergei Rudskoy, capo operativo dello Stato maggiore dell’esercito russo? Come interpretare l’affermazione che per il neo-zar si tratta ora di raggiungere l’obiettivo prioritario, "la liberazione del Donbass, fornendo assistenza al popolo delle Repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk, che da otto anni subisce il genocidio del regime di Kiev" (formulazione evidentemente di parte)? Sostanzialmente due cose: o si è di fronte a una manovra diversiva, di una semplice pausa tattica, della momentanea necessità di aggiornare le direttrici dell’avanzata e della conquista dell’intero paese; oppure siamo alla conferma del definitivo stravolgimento, o quanto meno del forte ridimensionamento, dell’obbiettivo della cosiddetta ‘operazione militare speciale’, come Mosca si ostina a definire l’invasione. Nessuna delle due ipotesi è esclusa. Ma è inevitabile constatare l’evidenza di una de-escalation delle pretese e ambizioni ufficiali di Mosca. In un solo mese, Putin è passato dallo slogan operativo ‘l’Ucraina è Russia’, dunque tutta da sottomettere; all’esplicito invito a un putsch militare per abbattere Zelensky e la sua "banda di drogati e neo-nazisti"; dunque alla prospettiva di un ‘regime change’ a Kiev con la scelta di un nuovo presidente-burattino agli ordini del ventriloquo di Mosca; fino alla "protezione prioritaria" della minoranza russofona, già tutelata dal 2014 da armamenti e militari russi con divise senza insegne, oltre all’annessione pura e semplice della Crimea.

Difficile negare che l’imprevista tenacia della resistenza ucraina ha il suo peso. Gli obiettivi del Cremlino erano sostanzialmente due. A scalare, dal più importante: l’immediata resa del paese invaso, dopo uno sbrigativo blitz armato, quindi la costituzione di un nuovo governo ucraino asservito agli interessi imperiali di Mosca lungo l’asse euro-asiatico; oppure, piano B, quantomeno la definitiva sottrazione alla giurisdizione di Kiev non soltanto del Donbass ribelle (7,2 per cento di controllo del territorio, 20 per cento del prodotto interno lordo, 25 per cento delle esportazioni nazionali), ma addirittura di una nuova frontiera situata lungo il fiume Dnepr, giù fino a Mar Nero e Mare d’Azov, lasciando sull’altra sponda del mitico corso d’acqua una regione ancor più spogliata di moltissime risorse economiche, quindi assai impoverita, svuotata dall’emigrazione forzata di milioni di abitanti. "Se il piano fosse questo e si compisse, l’Ucraina verrebbe riportata indietro di secoli, addirittura al Trattato di Andrusovo del 1656, quando sulla riva destra del Dnepr comandava la Russia e su quella sinistra la Polonia", ricorda Fulvio Scaglione (autore di ‘La Russia è tornata, la nuova politica di potenza del più vasto paese del mondo’). Scenari ipotetici. E altri potrebbero emergere nell’intrecciarsi di un terribile conflitto (per numero di vittime, distruzioni, fuggiaschi) che non sembra aprire spiragli di vero dialogo. Questo a meno di 30 anni dal memorandum di Budapest: 1994, in cambio della consegna di tutto il suo arsenale atomico, l’Ucraina ottiene l’impegno per la protezione della sua sovranità e integrità territoriale: impegno sottoscritto da Stati Uniti, Gran Bretagna e… Russia. Era l’inizio del regno espansionista di Putin.