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Zelensky, la Shoah e il paradosso di Romanchenko

È sbagliato paragonare l’invasione russa all’Olocausto? Difficile dirlo. Nel frattempo le storie di Saúl, Mariya e Boris ci invitano a riflettere

L’accostamento non è piaciuto per niente a Gerusalemme
(Keystone)
23 marzo 2022
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Perla fuggì dalla Polonia verso la fine del ’38. Portava in grembo Saúl, suo primogenito. Perla faceva parte di coloro che avevano intuito la minaccia rappresentata dai nazisti. Decise di non rimanere lì ad aspettarli: s’imbarcò su una nave che la portò dall’altra parte del mondo, al sicuro. Non ebbero la stessa fortuna i suoi genitori e i suoi dodici fratelli: vennero tutti uccisi ad Auschwitz. In Argentina, poco dopo il suo arrivo, Perla diede alla luce il bambino. Saúl, primo di tre figli, nacque a fine primavera e crebbe tra gli immigrati ebrei a Buenos Aires. Un’infanzia degna di un racconto di Bashevis Singer. Saúl non lasciò mai più l’Argentina.

La prima bambina ucraina nata in Ticino si chiama Mariya, l’amata. La madre l’ha partorita pochi giorni fa a Mendrisio. Mariya ha attraversato mezza Europa nel grembo della mamma, sfuggendo alla guerra. Prima di correre in ospedale, il fine settimana scorso, la donna ha fatto appena in tempo a registrarsi alla Sem di Chiasso. Ora lei e sua figlia hanno accolto insieme la primavera in un posto sicuro, qui da noi.

Boris Romanchenko fu catturato dai tedeschi nel 1942 e internato a Dortmund come prigioniero politico ucraino. Riuscì a fuggire, ma fu ricatturato e deportato a Buchenwald nell’ottobre 1943. Lì fu costretto ai lavori forzati, poi venne trasferito nei campi di concentramento di Mittelbau-Dora e di Bergen-Belsen. Sopravvissuto ai lager nazisti durante le Seconda Guerra Mondiale, è morto venerdì scorso sotto le bombe "denazificatrici" russe a Kharkiv. Aveva 96 anni.

Queste tre storie dialogano in qualche modo con le frasi pronunciate da Volodymyr Zelensky durante il suo incontro con la Knesset israeliana. Il presidente ucraino ha paragonato l’invasione russa alla Shoah. Un accostamento che non è piaciuto per niente a Gerusalemme. Ha sbagliato Zelensky? Difficile dirlo. Le storie di Saúl e Mariya e in particolare il paradosso di Boris Romanchenko, ci possono in effetti indurre a pensare che ci siano certi punti di contatto tra una tragedia e l’altra. D’altro canto, l’entità del dramma che sta vivendo il popolo ucraino in questi giorni potrà essere "misurata", da un punto di vista storiografico, soltanto col tempo. Tempo però che Zelensky sa di non avere. I suoi sono i discorsi di un uomo disperato: ha provato a conquistare la simpatia israeliana evocando l’Olocausto; di fronte alla Camera dei Comuni britannica ha citato Churchill; davanti al parlamento tedesco ha chiesto l’aiuto di Berlino per abbattere il "nuovo muro che sta dividendo l’Europa"; al Congresso americano ha richiamato l’11 settembre. Questi interventi, insomma, più che giudicati vanno contestualizzati (Barthes insegna). D’altronde è chiaro che a Zelensky non è data la possibilità di fuggire con la sua patria in grembo per portarla in salvo. Allora prova con le parole – l’arma più potente che ha a disposizione – a portare a casa il decisivo aiuto per il suo popolo di quegli Stati ‘sicuri’ che osservano la guerra a distanza.

L’avvocato Gianoni ha scritto su laRegione che il presidente ucraino è il re Leonida di tutti noi, lo Spartano che lotta contro il nemico per la libertà dell’Occidente. Dissento. Zelensky non è Leonida. Zelensky può semmai essere paragonato a Ettore: l’unico che di fronte all’arroganza, la prepotenza e la vanità ha un vero motivo per cui combattere.

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