Le lotte per la parità dell’8 marzo sono legittimate da cifre che mostrano un presente dominato da antichi rapporti di subordinazione non superati
Sono trascorsi 50 anni da quando nel libro ‘Dalla parte delle bambine’ Elena Gianini Belotti mostrava come i concetti di "femminile" e "maschile" fossero modellati da un’educazione sociale e culturale che subordinava il primo al secondo. Famiglia, scuola, pubblicità, immaginario dei cartoni e media proponevano ai bambini il rischio, l’avventura, l’esplorazione e il dominio del mondo esterno, e alle bambine la seduzione, l’attesa negli spazi chiusi, i ruoli di cura. Raccogliendo il testimone, nel 2007 Loredana Lipperini dava alle stampe ‘Ancora dalla parte delle bambine’ in cui analizzando la società del momento – con la novità di internet – giungeva alla conclusione che nulla, nella sostanza, era cambiato. Questo apprendistato al "secondo sesso", come viene definito nei due saggi riprendendo la formulazione di Simone de Beauvoir, a guardare ai giorni nostri sembra non aver perso preminenza. L’organizzazione del lavoro è tuttora concepita prevalentemente su misura maschile, con le donne che si fanno carico senza retribuzione dei bisogni dei partner – oltre che dei figli – per consentire loro di uscire ogni mattina "puliti, nutriti e pronti per produrre". Dal momento che il peso domestico è sbilanciato sulle spalle femminili, l’accesso al mondo professionale, invece di assicurare pari diritti, comporta per le donne spesso un doppio lavoro, con incarichi per lo più a tempo parziale, flessibili e precari che non consentono una vera indipendenza economica. In aggiunta, la disparità dei salari tra sessi in Svizzera si attesta ancora al 14,4%: è come se fino al 20 febbraio di quest’anno le donne avessero lavorato gratis. Nemmeno la segregazione verticale che ostacola l’accesso femminile alle gerarchie aziendali, il cosiddetto "soffitto di cristallo", pare dare segni di scalfittura. Quando si pensa a cariche dirigenziali, presidenziali o al sindaco di un comune, a venire in mente è sempre per prima una figura maschile. Il nostro Paese non sembra ancora abituato alle donne nello spazio pubblico, retaggio forse di un diritto di voto ottenuto solo 51 anni fa. È vero, l’immobilismo non è totale, in Gran Consiglio le deputate sono 9 in più della legislatura precedente, ma comunque rappresentano solo un terzo del totale (31 su 90), e in Consiglio di Stato non c’è una donna. Senza contare che i problemi spesso iniziano dopo l’elezione, con attacchi sessisti che hanno dell’inaudito (v. edizione di ieri a p. 4). "L’intelligenza, la lucidità, la volontà e il coraggio delle donne incutono ancora paura – scriveva Gianini Belotti –, e uno dei sistemi più diffusi per svilirle è ignorare o svalutare queste qualità per divergere l’attenzione sull’aspetto fisico: le gambe, la scollatura, l’acconciatura, l’abbigliamento. Il corpo, come sempre". Quel corpo che pare non appartenere alle donne ma essere di dominio pubblico, un campo di disputa su cui tutti si sentono legittimati a prendere parola. Atteggiamenti da ricondurre a una cultura del possesso difficile da scardinare: lo testimoniano l’aborto reso legale in Svizzera solo 20 anni fa, la media nazionale dei femminicidi di due al mese, gli interventi di polizia per violenza domestica in Ticino pari a tre al giorno. Sono cifre eloquenti di una fotografia del presente che conserva le tinte cupe di un mondo che alcuni immaginano superato. Cifre di fronte a cui le rivendicazioni di parità espresse dalle donne l’8 marzo – e in qualsiasi giorno dell’anno – si dimostrano tutt’altro che un lamento fuori dal tempo.