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Quando l’inflazione brucia i salari

Il rincaro dei prezzi è ancora moderato in Svizzera. Se però persisterà creerà disparità di reddito

Merci importate sempre più care
(Keystone)
12 febbraio 2022
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Scomparsa dai radar macroeconomici da un paio di decenni e invocata da tempo, ma a piccole dosi, dai banchieri centrali per dare una spinta all’economia, l’inflazione è tornata di attualità e preoccupa governi e autorità monetarie perché se rimarrà a livelli elevati potrebbe vanificare l’attuale ripresa economica e deprimere il potere d’acquisto di chi vive di solo reddito fisso: salariati e pensionati.

Tradizionalmente l’inflazione è riconducibile a vari fattori di natura interna alle singole economie (salari, tariffe pubbliche e stampa di moneta) ma è anche determinata da trend globali. Un po’ d’inflazione, vicina ma inferiore al 2% indicato dalle banche centrali, è ritenuta positiva perché significa che l’economia è in buona salute. Un moderato aumento dei prezzi, infatti, è il sintomo che i consumi sono in rafforzamento e alimentano la crescita, che i salari aumentano grazie a un mercato del lavoro solido, che il sistema produttivo è in grado di sopportare aumenti dei costi che ancora riflettono un’economia in buona salute. Non è così se si è in presenza di inflazione molto elevata che di fatto tassa in modo iniquo i redditi fissi e più modesti e premia la rendita finanziaria.

Negli Stati Uniti il dato di gennaio (+7,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) ha creato scompiglio. Per trovare un livello simile bisogna andare indietro di quarant’anni, al febbraio 1982. Anche in Europa la dinamica dei prezzi sta conoscendo una spinta al rialzo. Per rimanere nella zona euro, stando alle ultime stime della Commissione europea, l’inflazione segnerà un +3,5% (+3,9% nell’intera Ue). In Svizzera l’aumento è più moderato, ma i segnali inflattivi ci sono tutti: +0,2% a gennaio rispetto a dicembre. Nel confronto con un anno prima il rincaro è stato dell’1,6%. A incidere maggiormente è l’incremento dei prezzi dei prodotti petroliferi, delle auto d’occasione e in generale di tutti i prezzi dei beni importati. Negli Stati Uniti, a titolo di curiosità, i prezzi delle auto d’occasione a gennaio sono aumentati del 40%. Un’anomalia, quest’ultima, tipica di molti mercati e dovuta alle strozzature sul lato dell’offerta causate dalla ripresa post lockdown: mancando le auto nuove per la penuria di componentistica elettronica, i consumatori ripiegano sull’usato.

Nei decenni scorsi alcune economie occidentali hanno vissuto un periodo di iperinflazione con tassi a doppia cifra: tra il 15 e il 20% l’anno. Eravamo all’inizio degli anni 70 al termine del cosiddetto ‘trentennio glorioso’. Quel periodo coincise con il boom economico e la stagione delle conquiste sociali per tantissimi salariati. Conquiste, senza star qui a ricordare Reagan e Thatcher, fortemente ridimensionate negli anni successivi. Un fenomeno – quello dell’inflazione elevata – che non aveva risparmiato nemmeno la parsimoniosa Svizzera: tra il 1970 e il 1974 l’aumento dei prezzi al consumo, spinto dalla crisi petrolifera, viaggiava tra il 5,4 e il 11,9%. Tassi mai più sfiorati nei decenni successivi. Anzi, nell’ultimo, quello iniziato con la crisi finanziaria del 2007-2008, l’inflazione è addirittura scomparsa, nonostante massicci interventi di politica monetaria e acquisti sul mercato secondario di titoli del debito pubblico e privato (i famosi quantitative easing). È quindi chiaro che l’aumento generale dei prezzi non è un fenomeno monetario, ovvero di quanta moneta ci sia in circolazione. O meglio, se quest’ultima alimenta solo la finanza e non è trasmessa all’economia reale, non può trasformarsi in salari e quindi in maggiori consumi che spingono a loro volta la produzione.