Da qualche giorno il famoso medievista è bersaglio di uno ‘shitstorm’ per una sua opinione sulle disparità sociali di genere
Alessandro Barbero è un affermato medievista e certamente, alle nostre latitudini, il più popolare tra gli storici divulgatori. Da qualche giorno è bersaglio di uno “shitstorm” alimentato da social, politici, opinionisti. Come regolarmente succede – in particolare ma non solo – in Italia, il fragore della polemica e la ferocia del linguaggio intimidatorio spazzano via come un uragano forza 12 qualsiasi residuo di confronto: i prêt-à-porter ideologici non lasciano scampo al dialogo, la dialettica viene azzerata dai riflessi pavloviani e da secchiate di insulti. Nel trionfo del digitale, chi non si iscrive nella logica 0 o 1 – sto da una parte o dall’altra – è condannato al pubblico ludibrio e inserito manu militari nella lista di proscrizione del politicamente accettabile.
Il ciclone che ha precipitato Barbero dalla categoria dei geni in quella dei cretini/reazionari è un’intervista che il celebre accademico ha rilasciato al termine di una serie di lezioni sulle donne nella storia. Nella quale, in estrema sintesi, si interroga sui ritardi nel raggiungimento di una reale parità nelle carriere politiche e professionali, chiedendosi se non siano anche da ascrivere a fattori strutturali in un’epoca in cui spavalderia e aggressività, ingredienti più presenti tra i maschi che tra le femmine, aiutano a salire la scala sociale. Barbero non ritiene certo che il cocktail in cui si mescolano tempeste ormonali ed effetti di millenni di storia patriarcale sulla genetica sia di quelli da inserire nei manuali dei migliori drink. Al contrario: in questo prudente accenno di differenza tra i sessi sposa la tesi di chi afferma, sulla base di una casistica del tutto condivisibile, che mediamente se le donne facessero più politica la politica sarebbe migliore.
Ad aprire il fuoco incrociato di reazioni indignate, oltre alla folta schiera di leoni da tastiera e filosofi da emoji, alcuni politici fattisi notare per la qualità non proprio eccelsa delle loro analisi: “Barbero dice castronerie di proporzioni cosmiche” (Carlo Calenda, progressista), “se Barbero vuole conoscere una donna aggressiva può parlare con me dopo che ho letto le sue parole” (Pina Picierno, eurodeputata Pd). Si dileggia. Punto. Si distorce il senso delle parole. Ci si compiace in slogan a effetto. Scorciatoia che evita la riflessione. Alla ricerca disperata di polemiche da alimentare a dismisura fanno la fila alcune firme del giornalismo, scrittori e scrittrici habitué dei salotti televisivi ben in mostra sotto la luce dei riflettori.
La complessità della questione, l’interazione di una storia prettamente patriarcale dalle strutture sociali, religiose, ideologiche prevaricatrici con le componenti neuroscientifiche (ben evidenziate da un classico in materia, antidoto contro i pregiudizi di ogni tipo, ‘Il cervello delle donne’ della neuropsichiatra di Berkeley Louann Brizendine) cancellate con un colpo di spugna. Vietato riflettere. Dialogare è peccato mortale. “Non sento, non vedo ma parlo” sentenziavano in una caricatura umoristica le tre scimmiette sagge. “Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza” scriveva Jorge Luis Borges. Le parole del grande scrittore argentino ci inducono a pensare che, al di là dei contenuti specifici e discutibili sulle questioni di genere, con l’esaltazione quotidiana delle soluzioni precotte si stia ormai celebrando il funerale della ragione.