Svanisce definitivamente l’illusione che al bipolarismo della guerra fredda potesse seguire un periodo di tolleranza tra le nazioni e di 'democrazia a volontà'
La rovinosa partenza delle truppe americane da Kabul, con la tragico-grottesca consegna di un intero Paese ai talebani alla viglia della più simbolica delle ricorrenze, è celebrata da un ampio spettro geopolitico. Scontata l’esaltazione dei lugubri barbuti imitatori del profeta e di jihadisti increduli, che ancora non avevano fatto il lutto con la morte del califfato. A festeggiare la disfatta dello zio Sam, oltre agli Stati antagonisti, troviamo a latitudini più vicine a noi anche la variegata schiera di incalliti fan dell’antiamericanismo più viscerale il quale può oggi dunque pasteggiare a champagne. La disfatta, con il suo prezzo inestimabile che pagheranno gli afghani (e in particolare i giovani urbanizzati e le donne che nel ventennio hanno visto la loro scolarizzazione passare dallo 0 all’80%), segna indubbiamente il capolinea di un’intera epoca. Svanisce definitivamente l’illusione che al bipolarismo della guerra fredda potesse seguire un periodo di tolleranza tra le nazioni e di “democrazia a volontà”, la pace “kantiana” o la “fine della storia” a seconda degli esperti, il tutto gestito dal gendarme del mondo.
Le risposte date al terrorismo (inevitabile e giustificata quella del 2001 in Afghanistan, scellerata, devastante e pretestuosa quella di due anni più tardi in Iraq) non si riducono a una considerazione già ampiamente commentata: il tentativo di esportare un modello sociale e istituzionale con le cannoniere. Utile forse ricordare che, sempre in Afghanistan, già i sovietici, impossessatisi di Kabul 42 anni fa con un sanguinoso golpe, dovettero pagare con una guerra devastante (un milione e mezzo di morti) il fallito innesto di un modello socialista laico e più egualitario in un società tribale e fortemente religiosa.
Il vero fallimento gravido di conseguenze durature sta altrove: nell’aver calpestato, in nome della lotta al terrorismo, i principi stessi dello Stato di diritto e la salvaguardia dei diritti umani. Guantanamo è lì per ricordarci che al male Washington ha risposto con il male. Dopo 20 anni di trattamento disumano, 39 prigionieri oggi sono ancora lì ingabbiati, in attesa di un improbabile processo. Come credere che praticando il “waterboarding” o la “rectal rehydration”, autorizzati da George W. Bush (e poi vietati da Barack Obama), si possa guadagnare credibilità? Come immaginare che i 4 detenuti liberati alcuni anni fa dal carcere americano a Cuba, in uno scambio con un ostaggio statunitense, e da poco entrati… nel governo talebano, possano ora promuovere valori vicini a quelli su cui abbiamo fondato la nostra democrazia? E che dire dei droni che nella caccia ai jihadisti nelle montagne pakistane hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di orrore tra civili innocenti?
Il danno per la difesa dei diritti umani è di quelli pesanti: il “faro della democrazia” è quasi spento, altri, dalla Russia alla Cina (“libertà, democrazia e diritti umani sono diventati uno strumento del capitalismo” proclama il Quotidiano del Popolo) non aspettavano altro per prendere a mazzate, con ancora maggior vigore, quei valori che loro più o meno ignorano e che dovrebbero proteggere tutti noi da abusi, prevaricazioni, dittature.