Domani la cerimonia d'apertura inaugura la 32esima edizione dei Giochi olimpici estivi: quelli rinviati, senza pubblico e senza leggende. Ma con sei ticinesi
Ha tremato, ha rischiato addirittura di spegnersi, tuttavia ha resistito ad avversità di vario genere – sanitarie e politiche – e domani la fiamma olimpica illuminerà Tokyo, sede dell’edizione numero 32 dei Giochi olimpici estivi che è già passata alla storia – prima di capire quanti record verranno battuti, prima dell’assegnazione dei tanti titoli – per il solo fatto di avere luogo a cinque anni di distanza dalla precedente, Rio 2016. Ebbene sì, la pandemia ha inferto un bel calcio anche alla tradizione e alla cadenza quadriennale.
È già un successo che abbiano luogo, queste Olimpiadi, ma è inevitabile che siano attraversate da un sottile ma fastidioso sentimento di inadeguatezza. Impossibile considerarle senza badare al contesto storico in cui si sono incastrate, a cavallo tra una crisi sanitaria di gravità inaudita, le speranze di un graduale ritorno alla normalità e i timori di nuove e sempre più devastanti chiusure. Non sono Giochi tradizionali, sono quelli organizzati con un anno di ritardo, segnati dalla scarsa accoglienza da parte del Paese che se li ritrova in casa, un popolo che, per inciso, è noto per la sua ospitalità, peculiarità che il mondo alla rovescia di questi ultimi due anni è riuscito a ribaltare. Per il popolo nipponico, che aveva esultato fino a versare lacrime di gioia, al momento dell’assegnazione avvenuta l’8 settembre 2013, avrebbero dovuto essere i Giochi della ricostruzione, l’evento dal quale idealmente ripartire dopo il tremendo dramma dell’11 marzo 2011 (terremoto, tsunami, incidente nucleare di Fukushima) che causò 18’500 morti e gettò il Paese nello sconforto. Il Covid ha infierito, l’entusiasmo è stato spazzato via dal malcontento diffuso.
Lo sport torna al centro dell’attenzione, ma in un contorno ammantato di timori e precauzioni, codificato da protocolli e regole che tolgono e nulla aggiungono. Sono i primi Giochi della storia senza pubblico. Paradosso o controsenso che sia, è pur sempre il segno distintivo di Tokyo 2020 che va in scena nel 2021, con il fardello di un anno fa ancora in parte lì, a gravare sulle spalle di atleti e appassionati, privati di quella leggerezza e di quella spensieratezza che solitamente permeano l’evento a cinque cerchi, sul quale spira un’aria più distesa e godibile che in altri grandi appuntamenti.
Basta scorrere a ritroso le precedenti edizioni per scoprire che le Olimpiadi hanno consegnato alla storia dello sport degli atleti assurti a leggenda, capaci di imprese tramandate in quanto memorabili, eterne: Mark Spitz, Jesse Owens, Michael Phelps, l’uomo da 28 medaglie, 23 delle quali d’oro, Usain Bolt (tre triplette in tre edizioni di fila), Emil Zatopek. Difficilmente, Tokyo 2020 riuscirà ad allinearsi a questa tendenza, messa a dura prova anche dalle numerose defezioni illustri, specchio dei tempi, figlie di calcoli opportunistici, con buona pace di De Coubertin, il cui invito a partecipare è staro declinato da qualche protagonista solo annunciato ma ahinoi mancato.
Bontà nostra, è anche l’Olimpiade dei ticinesi Del Ponte, Petrucciani, Ponti, Niggeler, Colombo e Ugolkova (d’adozione). L’occasione della vita, un premio alla loro dedizione, al loro talento. Un motivo di vanto per la nostra piccola prolifica realtà. Il mondo non riuscirà a considerarla tale, ma per noi questa edizione sarà memorabile, comunque vada.