La Masseria di Castel San Pietro rischia di scomparire. E stavolta non è colpa delle ruspe dei cementificatori
'Non c'è futuro senza memoria'. È difficile non dare ragione allo scrittore Primo Levi, che ci ha fatto capire come queste due parole, futuro e memoria, siano legate indissolubilmente. La memoria di ciò che è stato va però condivisa per riuscire a guardare avanti tutti insieme. Niente a che vedere con la nostalgia o il passatismo, sia chiaro. Anche una realtà come quella del Mendrisiotto, del resto, parla attraverso le sue testimonianze del tempo andato. Lì affondano le radici e l'identità di una regione che in questi anni ha cercato di non dimenticare le vestigia delle sue origini. Ripartendo dalla sua storia.
Certo, non sempre il Distretto c'è riuscito, e l'ultimo esempio di un mancato salvataggio è proprio quello della Masseria di Vigino che, a Castel San Pietro, rischia di andare perduta per sempre. Sgombriamo però subito il campo: questa volta non se ne può fare una colpa alle istituzioni e alla politica locali. A loro va riconosciuto, infatti, il merito di averci provato; e non solo nel caso di questo bene storico e culturale protetto che ci riporta alla prima metà del XV secolo. Senza una visione e amministratori lungimiranti oggi non potremmo godere di oasi verdi nel bel mezzo di un territorio molto urbanizzato (il Parco delle Gole della Breggia e il Parco della Valle della Motta), non avremmo riscoperto le cave di marmo di Arzo e non avremmo la certezza che le antiche Fornaci di Riva San Vitale torneranno a vivere. In questi angoli del Distretto proprio le buone pratiche della politica e la buona volontà degli enti locali, ma pure cantonali (anche a investire risorse finanziarie), hanno dato i loro frutti, che sono sotto gli occhi di tutti. Per trattenere storia e memoria qualche anno fa - nel 2002-2003 - si arrivò persino a impacchettare pezzo dopo pezzo e a spedire al Museo svizzero all'aperto del Ballenberg il complesso rurale de 'La Pobbia' di Novazzano pur di non rischiare di veder scomparire quel pezzo di mondo antico. Una scelta che in quei giorni non convinse tutti, ma che a distanza di tempo ha aiutato a conservare la memoria del territorio (seppur fuori cantone).
E allora si fatica a comprendere come mai l''Operazione Vigino' non sia andata in porto. Come è possibile che un bene di proprietà del Cantone - quindi dello Stato, ergo di tutti noi - iscritto dal 2007 nell'Inventario cantonale dei beni culturali protetti - dunque tutelato e vincolato - venga lasciato al suo degrado? Eppure l'opportunità di lanciare un salvagente c'era (come abbiamo riferito da queste colonne): l'Ente regionale per lo sviluppo (Ers) e il Comune di Castello erano pronti a prenderlo al volo. Bisognava però accettare di cedere il passo e la missione a un privato - una 'facoltosa famiglia', come l'ha definita lo stesso Consiglio di Stato -, peraltro disponibile a sottostare alle condizioni e a seguire l'ente pubblico nel progetto di recupero: farne una 'Maison du terroir' aperta al pubblico. Invece, il governo cantonale ha dato l'impressione di essere ben disposto ma solo a parole. Anzi, all'Ers pensano proprio che non l'abbia raccontata giusta. Anche perché il progetto lo si conosceva bene a Palazzo delle Orsoline, e sin dall'inizio. Come si era a conoscenza della decisione del privato di abbandonare il campo; perché è il Cantone ad aver alzato troppo il prezzo, ingoiandosi la parola data agli enti locali. Difficile ora pensare si possa fare marcia indietro. E ancora di più accettare che la memoria di Vigino possa essere cancellata, stavolta non dalle ruspe dei cementificatori, bensì da uno Stato volubile.