Il tentativo di rendere più inclusivo il linguaggio usando nuovi segni grafici rischia di provocare l'effetto contrario, aumentando le divisioni
L’inclusività è un club esclusivo. Lo sa bene la sinistra, che fa dell’inclusività la sua benzina e dell’esclusività la sua inevitabile meta. Esempio: aprile 2002, Francia. Alle elezioni presidenziali il Partito socialista candida Lionel Jospin, che non piace a tal punto e per talmente tante ragioni diverse alla sinistra da far presentare alle urne altri 7 candidati tra socialisti, verdi, rossoverdi, radicali, comunisti, comunisti più comunisti dei comunisti e comunisti che non erano d’accordo con gli altri comunisti. La sinistra – paladina dell’inclusività a compartimenti stagni – chissà come mai, perde.
Per qualche strano motivo, l’inclusività riesce spesso a farsi rappresentare da leader e testimonial talmente arcigni e respingenti da farti mettere istintivamente sulla difensiva. È il caso delle generalesse dello schwa, con i loro asterischi esibiti come mostrine di guerra. Ultrafemministe che hanno deciso che la lingua italiana non è abbastanza inclusiva, scambiando l’alfabeto con l’ordine sociale, quello sì, fortemente patriarcale ed esclusivo, ma non solo. Ma del non solo, a quanto pare, chissenefrega. La memoria selettiva, d’altra parte, è quella che ci fa tirare avanti: contiene quello che ci piace, quello che non ci piace e vogliamo combattere, quello che ci piace e non ci piace, ma ci dà buoni motivi per crogiolarci. Il resto è un ostacolo, e quindi via, sciò, che non è schwa, ma alla fine – a pensarci bene – sono parenti.
La generalessa con più mostrine e asterischi e rabbia in corpo è la scrittrice Michela Murgia, il cui livore – così a naso – potrebbe far decollare uno shuttle. Murgia, nei giorni scorsi, ha scritto sull’Espresso un articolo in cui, qua e là, appare lo schwa (Ə) a sostituire il plurale maschile (e maschilista) per un più inclusivo neutro.
Come sempre, sono arrivate le tifoserie, quelli che sbeffeggiano ogni cambiamento a prescindere e quelli, ma soprattutto quelle, per cui il cambiamento va fatto qui, ora e subito. A tavolino. Come se le decisioni imposte servissero davvero a qualcosa. Vedi Israele, le due Germanie, i “torna a casa presto” della mamma e – per rimanere sulla linguistica – l’esperanto: l’idioma inclusivo del futuro ormai agonizzante, se non in una ristretta cerchia di cultori del genere, un po’ come il Subbuteo e i monocoli.
Vera Gheno, papessa del linguaggio neutro e della causa di genere, è ormai una celebrità: sforna libri, va in tv, partecipa a conferenze, ed è considerata la maggiore autorità in materia. Posata, educata e formale, quando viene contraddetta sfodera un atteggiamento passivo-aggressivo non dissimile da quello di chi la critica. Certo, i pasdaran dello status quo sono insopportabili, perché la lingua – come tutto – evolve, ma anche i partigiani dell’inclusività non sono da meno. Questo “o si fa l’inclusività o si muore” sembra la fotocopia delle presidenziali francesi del 2002. Tra chi propone asterischi, schwa e arzigogoli vari, c’è chi dialoga dicendo che questi tentativi sono modi per porre un problema di genere, ma c’è anche chi crea meme di questo tipo: “Lo schwa non è la meta, ma il viaggio. E non ti ho mica chiesto di farmi compagnia”. Così i campioni dell’inclusività legittimano un’esclusività che annulla il dialogo e alimenta il tutti contro tutti.
Cambiare una lingua, come è successo nei Balcani dopo la guerra, può essere segno di forte divisione. Perché alla ricerca di un’inclusività all’interno di un gruppo, si vanno ad escludere tutti gli altri. Includere chi è con me è la prima forma di esclusione. E così, per distinguersi dai serbi, i croati hanno coniato neologismi e i bosniaci hanno preso in prestito parole dall’arabo. Risultato: per capire di che mese parlano, oggi croati e serbi, che parlano quasi la stessa lingua, devono fare ricorso ai numeri.
Recentemente, la giornalista Rula Jebreal si è rifiutata di partecipare al programma tv (di sinistra, inclusivo-esclusivo) PropagandaLive, perché aveva poche donne tra gli ospiti. La settimana dopo gli autori sono corsi ai ripari, invitando, tra le altre, l’attrice Caterina Guzzanti, una donna, senza dubbio, ma anche una figlia di (Paolo, giornalista) e sorella di (Corrado e Sabina, comici). Romana. In un programma dove quasi tutti sono romani. È stato un invito inclusivo in quanto donna o esclusivo perché ignora chi recita e scrive da fuori Roma o senza la parentela giusta? La lista è lunga. Quanto sono inclusivi certi giornali, che parlano il giornalese, notizie scritte per far capire all’altra testata, al collega, al politico di turno un messaggio che il lettore non capirà? Quanto è inclusiva l’Inghilterra, che avendo verbi e aggettivi neutri non ha problemi lessicali di genere, ma continua a replicare all’infinito una società basata su amicizie e famiglie che si scambiano mogli, amanti, castelli e stanze di college?
Il problema non sta, o almeno non dovrebbe stare, in una “o” trasformata in un nuovo segno grafico, tra l’altro quasi impronunciabile. Ma nelle intenzioni, come ricordava qualche tempo fa Paola Cortellesi, ai David di Donatello: “Nella nostra lingua alcuni termini, declinati al femminile, cambiano significato. Un cortigiano: un uomo che vive a corte. Una cortigiana: una mignotta. Un uomo di strada: un uomo del popolo. Una donna di strada: una mignotta. Un uomo disponibile: un uomo gentile e premuroso. Una donna disponibile? Una mignotta. Un passeggiatore: un uomo che cammina. Una passeggiatrice? Una mignotta”.
Ecco, è sicuramente più difficile togliersi le mignotte dalla testa che mettere uno schwa in un testo, ma sarebbe anche molto più efficace.