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Il genocidio armeno tra storia e strategia

Il suo riconoscimento da parte di Joe Biden può destare qualche dubbio sulla tempistica, ma non fa una piega dal profilo dei fatti

(Keystone)

Chi scrive la storia? I vincitori, risponde un celebre adagio. Gli storici, dovrebbe essere la risposta suggerita dal buon senso. Ma la memoria storica è anche terreno di scontro politico. Il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Joe Biden può destare qualche sospetto sulla tempistica, ma non fa una piega dal profilo dei fatti riconosciuti dagli studiosi. Gli Usa si aggiungono a una trentina di Stati, tra cui la Svizzera, nel riconoscere che la carneficina iniziata nel 1915 contro la popolazione cristiana armena da parte del califfo-sultano Mehmet V e del movimento dei “Giovani turchi” fu un vero e proprio genocidio.

Nella giornata del 24 aprile in cui si commemora l’uccisione di oltre 1.2 milioni di armeni, l’America lancia il suo monito: “Onoriamo le vittime del Medz Yeghern (grande crimine) in modo che gli orrori di ciò che è accaduto non vadano persi nella storia”. Il primo genocidio del XX secolo si vede così finalmente riconosciuto dalla superpotenza.

Scatenato in piena prima guerra mondiale, il massacro, immortalato pure da numerose fotografie, si protrasse per diversi anni. Centinaia di migliaia di persone morirono uccise o di stenti nelle deportazioni in massa verso l’entroterra anatolico e soprattutto il deserto siriano. La battaglia a livello semantico (genocidio per la maggioranza degli storici, massacro di massa per alcuni altri) vede confrontati quanti sostengono che non vi fu un progetto di sterminio vero e proprio a chi considera che vi fu un disegno preciso di annientamento da parte dei turchi ottomani. Gli armeni, cristiani, simpatizzavano con il nemico russo: questa in sostanza l’origine della violentissima repressione. 

Non sorprende il diniego da parte del regime liberticida di Erdogan. Un negazionismo ostinato, malgrado le innumerevoli testimonianze dell’epoca, tra cui quelle di ufficiali tedeschi che assistevano i carnefici lungo la “strada degli orrori” dove i cadaveri erano disseminati per centinaia di chilometri. Le parole vergate sul suo diario dal rappresentante consolare tedesco Wilhelm Litten fanno accapponare la pelle: corpi putrefatti, fantasmi scheletriti che cadevano a terra stremati, volti stravolti dalla sofferenza alla ricerca disperata di acqua in pieno deserto. Una tragedia immensa. Che ci sia stata una carneficina programmata è una realtà incontrovertibile. Eppure ad Ankara chi osa accennarne rischia tre anni di carcere.

L’interrogativo riguarda dunque il momento scelto da Joe Biden, presidente certamente molto attento ai diritti umani, ma pure alle questioni strategiche. Con lui alla Casa Bianca, Erdogan ha perso un amico (Donald Trump). Gli Usa tentennano da anni nel riconoscere il primo genocidio della storia, George W. Bush era contrario, Barack Obama favorevole, ma indeciso. La Turchia in chiave islamista ha rispolverato le velleità imperiali, attaccando la Siria e sostenendo i jihadisti, massacrando i curdi, intervenendo in Libia, abbracciando l’orso russo. Erdogan alleato Nato lo è de jure, ma sempre meno de facto. Il riconoscimento del genocidio non è solo una questione di giustizia storica, imprime al confronto strategico una nuova fortissima dimensione simbolica.