Svizzera e Ue restano distanti anni luce. Il Consiglio federale ora deve schierarsi una volta per tutte. Indicando delle alternative, se del caso.
«Abbiamo constatato che le divergenze che sussistono tra le nostre posizioni sono importanti. Abbiamo convenuto (...) che le nostre negoziatrici rimangono in contatto». Dice tutto la laconica dichiarazione letta dal presidente della Confederazione Guy Parmelin dopo l’incontro con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Nessun avvicinamento. Nessuna data di un prossimo incontro, o quantomeno l’indicazione di un orizzonte temporale. Né la volontà di ritrovarsi al più alto livello. Svizzera e Ue sono distanti anni luce.
Nessuno si aspettava un atto definitivo – il salvataggio dell’accordo istituzionale, o un annuncio funebre – dall’atteso tête-à-tête di Bruxelles. Tutt’al più era lecito sperare in un credibile tentativo di rianimare l’intesa o, al contrario, di ‘congelarla’ e passare a qualcos’altro (il fantomatico ‘piano B’). E invece nemmeno questo. Svizzera e Ue si sono limitate ad attaccare a un’altra flebo il moribondo accordo sul quale si accapigliano dal 2014. Dopo due anni e mezzo di non comunicazione da parte del Consiglio federale e quattro mesi di discussioni tecniche giunte a un punto morto, le parti hanno convenuto di “rimanere in contatto”. Niente di più, se non che Parmelin e Von der Leyen almeno se lo sono detti in faccia: così non va.
In teoria un salvataggio in extremis resta possibile. Ma al momento, al di là delle parole di prammatica, nessun indizio lascia intravedere uno sbocco positivo. Ognuno si impunta. E aspetta che l’altro faccia il primo passo. Non si vede quale, per la verità. Solo un dietrofront da parte europea permetterebbe di passare dalle discussioni a trattative vere e proprie, quelle che la Confederazione esige per poter mettere mano al testo di un accordo che invece l’Ue giudica definitivo e per di più nell’interesse della Svizzera.
Sembra che Parmelin abbia portato la richiesta di escludere dall’accordo i tre punti sui quali la Svizzera pretende garanzie giuridiche: protezione dei salari, aiuti di Stato e direttiva Ue sulla cittadinanza (leggi: l’accesso dei cittadini europei alle prestazioni sociali). L’idea è di ‘immunizzarli’ dalla ripresa dinamica del diritto europeo e dalla giurisprudenza ‘neoliberista’ della Corte di giustizia dell’Ue, alla quale verrebbe affidato un ruolo non trascurabile (benché sopravvalutato rispetto a quello del previsto tribunale arbitrale) nella composizione delle controversie. Una posizione ampiamente sostenuta in Svizzera, e non solo dai sindacati. Ma che è inammissibile per Bruxelles. «Non è accettabile sopprimere parti dell’accordo», ha detto chiaro e tondo il portavoce della Commissione Eric Mamer. «Un quadro giuridico omogeneo è un principio cardine del nostro mercato interno», ha ribadito Von der Leyen.
Tutte cose che si sapevano già. Per questo il Consiglio federale adesso farebbe bene a schierarsi, una volta per tutte. Di fronte al suo prolungato e ostinato silenzio, in molti hanno occupato il campo: chi sparando a zero sull’accordo, spesso senza indicare alternative plausibili; chi sostenendolo più o meno acriticamente; chi estraendo dal cilindro piani B più o meno astrusi. Intanto nel Paese i fronti si sono irrigiditi. E l’Udc non è più sola contro tutti. Dal Consiglio federale ora ci si attende la stessa franchezza dimostrata da Guy Parmelin a Bruxelles. Che dica finalmente perché vuole firmare quest’accordo, e che poi si impegni a fondo per difenderlo davanti a Parlamento e popolo; oppure che spieghi perché non lo vuole fare, e allora indichi al più presto un’alternativa che possa salvare il salvabile ed evitare l’erosione della via bilaterale.