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Draghi, l’anti-italiano che non ti aspetti

Un discorso non in burocratese, un appello all'unità e uno schiaffo alla gerontocrazia e all'immobilismo, così ha esordito in Senato il nuovo premier

(Keystone)
18 febbraio 2021
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Prima di Mario Draghi l’anti-italiano avevamo visto sfilare come presidente del Consiglio tutte le sfumature dell’arci-italiano: l’avvocato di provincia sbarcato nella capitale (Conte) e il caposcout iperattivo che ha sempre ragione (Renzi), il compagno secchione che ti passa i compiti (Letta) e quello che quando riguardi la foto di classe ti chiedi come si chiamava (ma sì dai, quello là, Gentilini, Gentiletti, com’era più? Gentiloni), il sacerdote di paese che gioca a briscola e beve vino (Prodi). E poi Berlusconi, che vabbè, è Berlusconi. Somigliavano e somigliano tutti a qualcuno che conosciamo.

Poi ieri è sbarcato in Parlamento questo marziano della porta accanto, osannato dai più con aneddoti in stile “vita e miracoli di”, a metà tra il santo e il supereroe (quella volta che Draghi moltiplicò i pani, i pesci e le banconote da 50 euro, quella volta che fece la lavatrice e alla fine i calzini non erano spaiati, quella volta che trovò un centro di gravità permanente e lo restituì a Battiato...) e salutato da altri come l’incarnazione del Male: ecco l’eurocrate, il servo della Merkel, l’uomo delle banche, quello messo lì dai poteri forti per far fallire l’Italia…

Ma senza voler proseguire nel processo di beatificazione, si può almeno dire che c’è anti-italiano e anti-italiano: c’è quello che va contro gli interessi della sua stessa nazione (e sarebbe da escludere) e quello che va contro le consuetudini, scardinando vizi, virtù e certezze di un Paese finora sempre uguale a sé stesso, che lo governasse Pulcinella o Belzebù.

Draghi, con il suo discorso in Senato prima del voto di fiducia, ha messo come priorità tutte quelle cose che chi era arrivato prima di lui aveva sempre ignorato o infilato nella lista degli eccetera, eccetera. Scuola, ambiente, innovazione e parità di genere non sono stati citati distrattamente, ma posti come obiettivi primari, non solo per avere un futuro, ma per averne anche uno degno (“Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura… per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli a emigrare da un Paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti”).

Draghi è entrato in aula e ha parlato di fisco e tasse prima di chiedere il voto ai politici, spericolato come un aspirante fidanzato che alla prima cena dai genitori di lei dice al padre che ci si è messo assieme per portarsela a letto.

Insomma, via le maschere, via quei cerimoniali dialettici che fanno della politica italiana una palude da cui non si cerca di scappare, ma dove – al contrario – ci si crogiola benissimo restando in ammollo. Perché se dalle sabbie mobili non puoi liberarti con poco sforzo, tanto vale fare i fanghi finché non si affonda. Questo è l’andazzo comune, insito nei vecchi, pachidermici partiti come il Pd, che ha afflitto anche chi nella palude inizialmente schiamazzava e non ci voleva stare, come i Cinquestelle.

Draghi, infine, si è liberato del burocratese parlando un italiano comprensibile a tutti, facendo un discorso che sapeva sarebbe finito non solo sugli scranni del Parlamento, ma in ogni salotto e ufficio. Via i tecnicismi e spazio perfino a virtuosismi carichi di significato, come la frase simbolo del suo discorso: “Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere”. Un appello all’unità, un discorso alla nazione che è anche un richiamo agli italiani, uno a uno: alla loro capacità di mettersi in gioco, collaborare. Qualcosa di infinitamente più solido e duraturo del cantare in coro dai balconi. Perché fare tutto da soli a volte è o sembra più facile, ma equivale a negarsi, chiudersi, perdersi le mille possibilità che il mondo ci offre per continuare a essere noi stessi in modi che nemmeno possiamo immaginare.