Il leader di Italia Viva esce vincitore dalla crisi portando in dote Mario Draghi, mentre M5S fatica ad assorbire la botta, con tanto di tweet sconclusionati
“Fare o non fare. Non c’è provare”. Serve una frase di uno dei filosofi contemporanei più celebri e meno celebrati, Yoda di “Guerre Stellari”, per provare a spiegare quello strano animale politico chiamato Matteo Renzi. Dopo un breve momento di popolarità è già stato bocciato dagli italiani più volte: a sinistra si dice che non è di sinistra, a destra che non è abbastanza di destra. Renzi è post-ideologico, post-democristiano, post-italiano. Talmente post, che ormai è perfino post-renziano. Da sindaco di Firenze si presentò al grande pubblico nel 2012 perdendo le primarie del Partito Democratico. Anziché piagnucolare fece un meraviglioso elogio della sconfitta nel Paese in cui non perde mai nessuno, e se perde è sempre colpa di qualcun altro. Ora, invece, è ossessionato dalla vittoria, dal portare a casa qualcosa, che sia un ministero o un cachet saudita.
Tant’è, Renzi faceva cose nuove. Anzi, faceva cose. Anche sbagliate. Alcune parecchio sbagliate. Ma le faceva. E le fa ancora. Un’anomalia in un Paese abituato a parlare, discutere, rimandare: in cui, “ora no, poi vediamo dopo Natale, dopo Pasqua, dopo l’estate”. E il tempo passa. I problemi vengono sempre spinti un po’ più in là, come la dieta sul calendario.
Il governo Conte era un problema che però nessuno voleva risolvere. Tanto c’è tempo. C’è sempre tempo, soprattutto quando ce n’è poco. Ci ha pensato Renzi, portando in dote il meglio di quel che offre oggi l’Italia: un altro decisionista, Mario Draghi. Uno dal profilo talmente alto (studi al Mit, Banca Mondiale, Bankitalia, Bce) che per metterlo in discussione servono due cose, sfacciataggine e incompetenza: tratti distintivi del Movimento 5 Stelle. Un’armata Brancaleone che ha scambiato l’aula del Parlamento con la palestra di un liceo in autogestione. Consesso dove non contano forma né sostanza.
Oggi che la figura di Conte – sostenuto da M5S – esce rimpicciolita dal confronto con Draghi, si vede ancor meglio la debolezza strutturale di un piccolo movimento arrivato a un consenso talmente grande da non essere poi in grado di gestirlo. Era partito come un interessante esperimento di politica dal basso, quasi geniale, infatti era l’idea di un comico (Beppe Grillo) e non di un politico di professione. Ma è esploso in mille pezzi per le sue contraddizioni intrinseche. A cominciare da quella richiesta insistente di trasparenza subito dimenticata una volta al governo, con la base che vota (quando la fanno votare) su una piattaforma web privata e dai meccanismi opachi. Solo la punta di un iceberg che andava squagliandosi: tra espulsi e autoesiliati i Cinquestelle hanno iniziato a perdere pezzi quasi subito. Così sono rimasti un ministro degli Esteri ex bibitaro che metteva Pinochet in Venezuela e i libici in Libano, come se gli spalti di uno stadio valessero quanto un college a Oxford. Una ministra della scuola rimasta incastrata nei banchi a rotelle, un portavoce del premier uscito dal Grande Fratello e un ex usciere del tribunale a gestire il viavai, diventato gestibile quanto un incrocio di Nuova Delhi. Simbolo estremo di questo enorme equivoco che ha scambiato la democrazia diretta con un “tutti possono fare tutto” è il tweet anti-Draghi, sfacciato e incompetente, dell’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Dice che non lo sosterranno. E che per salvare l’Italia hanno fatto di tutto, perfino lavorato. Perfino lavorato. Nemmeno il fondatore Beppe Grillo faceva così ridere.